DI CLAUDIA SABA
Il 16 agosto del 1920 a Andemach in Germania, nasceva lo scrittore più “maledetto” del secolo scorso, Charles Bukowski.
Bukowski, il poeta che descrive la vita senza giri di parole.
Diretto, immediato.
Compone poesie nelle notti insonni bevendo whisky stando in disparte, soprattutto lontano dai salotti intellettuali.
La morte è stata la sua più grande ossessione.
Da lei si difende e per lei si distrugge con un atteggiamento autolesionista e allo stesso tempo vitale.
Come il sesso.
Nei suoi racconti non tralascia nulla.
L’importanza di un dettaglio.
La fragilità dell’uomo.
La capacità di provare empatia e compassione.
I suoi libri sembrano scritti con una penna speciale intinta nel calamaio della vita.
Espressione di un’arte difficile da apprendere.
Vivere, capire chi siamo e chi abbiamo di fronte.
In una delle sue ultime poesie, Bukowski racconta che una notte, tornato dall’ippodromo, prende la bottiglia dall’armadio della cucina e si chiede: che cosa c’è da festeggiare? Forse solo un altro giorno senza essersi suicidato. “Questo o qualunque altra cosa ci sia,
non ci sia, ci sarà, non ci sarà
esattamente come adesso”.
Feltrinelli pubblicò, tra il 1975 e 1980, i tre libri fondamentali: “Storie di ordinaria follia”, “Compagno di sbronze” e “Taccuino di un vecchio zozzone”.
Di lui oggi, restano le sue meravigliose poesie, le sue massime, i suoi aforismi, le sue debolezze tanto simili a quelle della maggior parte di noi umani.
Resta il suo porsi sempre libero davanti alla vita ribellandosi alla vita stessa.
Resta l’artista “maledetto” che nelle sue follie ha sempre creduto.
Follie a cui anche noi, continueremo a credere.