“L’AMBIGUO SORRISO DI GILDA” DI RICCARDO BORGOGNO

DI IANA PANNIZZO

1947-1949. Arrivano in Italia “Gilda” e altri film che fanno conoscere i divi e le dive di Hollywood.
Luisa ha sedici anni, è l’unica superstite degli abitanti del suo paese
massacrati dalle SS tedesche in ritirata. Adesso vive a Roma con gli zii Antonia e
Peppe e la loro figlia Cecilia, coetanea di Luisa. Ferdinando consegue il diploma di
maturità e si prepara a subentrare al nonno Massimiliano nella guida del Consorzio,
un gruppo finanziario e affaristico. Gioele è un operaio comunista, durante
l’occupazione ha fatto la lotta clandestina, non accetta la nuova linea legalitaria e
democratica del suo partito e organizza un gruppo che esegue atti di “giustizia
proletaria”. Guglielmo è un agente del ricostituito servizio segreto. Riceve l’incarico
di organizzare una rete armata clandestina allo scopo di prevenire un’invasione
sovietica esterna o un’insurrezione comunista interna (o entrambe) in modo da
rendere l’Italia affidabile per i nuovi alleati. La nuova rete si chiama “Gladio”. La
giovanissima protagonista Luisa compare anche in età adulta nel romanzo “I nostri
figli non conosceranno la miseria” ambientato a Torino nel 1961 dello stesso autore.
RECENSIONE a cura di Iana Pannizzo
L’ambiguo sorriso di Gilda, è il titolo del romanzo di Riccardo Borgogno che ci fa vivere, inizialmente come  in sordina , una trama con sfaccettature che pesano sulla storia, sulla coscienza e sull’inquieta curiosità.
La storia attraversa un arco di tempo tra gli anni 1947/1949 con alcuni salti temporali che risalgono alla fine della guerra.
Borgogno descrive gli anni del dopoguerra da punti di vista differenti. Da una parte della barricata ci sono i comunisti e la guerra proletaria, dall’altra parte i crimini dei fascisti e il progetto Gladio.
Un romanzo di cui si potrebbe parlare per ore, su cui riflettere con la difficoltà di non giudicare dalle apparenze e capire che l’animo umano ha sentimenti complessi che portano a situazioni e azioni disperate. Ricco di dialoghi, che fanno da cornice alla vita che sta dietro i punti salienti delle vicende, che viaggiano alla velocità della memoria non soltanto facendo la storia, ma cercandola.
Un romanzo disarmante, spiazzante, per alcuni versi crudele nella sua verità.
L’autore ci riporta negli anni bui con personaggi diversi tra loro come il giorno e la notte che attendono a loro modo un alito di vita che li possa riscattare.
C’è Luisa, una ragazzina petulante, vera, incosciente. Forte nel corpo e nello spirito e c’è Ferdinando, che ha tutto nella vita tranne la libertà e quando questa viene a mancare si reagisce o si soccombe. Oppure si muore o si muore in ogni caso e non solo fisicamente. L’autore entra dalle prime pagine in un mondo solitario, della proiezione di una vita regolare che vuole essere sconvolta da un  imprevisto fugace.
C’è Cecilia e le ragazze dell’epoca quasi come un canto innocente. Sono le speranze delle giovinette, ai tempi in cui il cinema sembra promettere un futuro migliore, di rivalsa, di riscatto che come una visione di angeli non ha il tempo del ripensamento e del disinganno.
Giochi delle identità, attraverso  protagonisti che si attraversano e si scontrano e annichiliscono segreti ma non il fango della corruzione.
E poi ci sono le madri, i padri, e la vita anonima del viavai che rimane nell’ombra.
L’autore ci fa rivivere il fascismo e la guerra  attraverso gli occhi dei bambini nei ricordi sfocati e l’incapacità di capire, anche quando tacere a volte può rivelarsi più utile che fare rumore, nonché la diversità di pensiero tra gli stessi partigiani.
Nessun eroe e molti vinti.
Non c’è pietà ai ricordi perché nella testa la guerra distrugge e mortifica ancora, tra la gente comune, la sete di vendetta e i rancori che hanno voce forte e chiara.
C’è il sapore amaro del dopoguerra, tante vite in bilico e nessuna certezza; storie che non si raccontano, da dimenticare su scenari diversi nella  politica di un’Italia che forse non si discosta molto da quella attuale.
E’ denso,  severo, amaro.  Aspro nella verità, nelle storie sbagliate, nelle speranze troncate.  
Sulla scia del capitalismo, si racconta della guerra proletaria che non ci sta, che avanza, prende coscienza, riflette e agisce. Lotte di classe, ai padroni, che in nome della giustizia si scontra con nemici troppo forti e spietati. E sta lì la bandiera rossa, come a dare sfondo all’idea di giustizia e libertà. Pace, lavoro e democrazia sono parole che sembrano stonare in un contesto di violenza e dalle idee di rivolta come scheletri in un armadio che non vuole chiudersi.
Ma quanto si discosta dall’attuale pensiero tra rivolte e pensieri celati? Tra le violenze dei giorni nostri che fanno eco alla storia? Quando la pace serve solo a coprire corpi sconvenienti, nel servire interessi o per amor di patria o ancora mirare ai propri scopi quando in gioco c’è la stessa sopravvivenza?
Sono mondi che si scontrano, che si annientano come un tornado che tutto distrugge al suo passaggio. Quanta ipocrisia imperversa sulle menti perbene che non osano prendere posizione? Forse perché la libertà ha un prezzo troppo alto, o forse perché la storia del dopoguerra, che i nostri nonni ricordano, persiste nelle coscienze che vogliono dimenticare e non possono.
Ambigui, proprio come il sorriso di un’attrice su un cartellone che con uno sguardo mellifluo che sembra prenderti per mano e spacciare per verità la menzogna di una politica corrotta e sogni svaniti.
Un romanzo da leggere tra le righe, in cui soffermarsi in apparenti ovvietà. Da cercare e ricercare tra realtà e finzione quale sarebbe stato il nostro pensiero e la nostra posizione in una storia che sembra tanto lontana ma non lo è.

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