DI LISA BERNARDINI
Compositore e musicologo, Riccardo Giagni ha composto e collaborato alle colonne sonore di importanti lavori cinematografici diretti da registi come Marco Bellocchio (“L’ore di religione”, “Il regista di matrimoni”, “Buongiorno, notte”), Mimmo Calopresti (“La fabbrica dei tedeschi”), Sabina Guzzanti (“Le ragioni dell’aragosta”, “Draquila”) e altri.
Insegna all’Istituto Europeo di Design di Roma (corsi di Video e Sound Design) e tiene seminari presso l’Università di Paris VIII (Saint-Denis). Ha insegnato a lungo “Storia della musica per il cinema” presso l’Università del Salento (Lecce).
Dirige una collana di volumi dedicati alla relazione suono/immagine per le Edizioni Argo. Questo ed ovviamente molto altro è Riccardo Giagni, uno dei più raffinati e colti compositori del nostro Paese. Riusciamo a contattarlo telefonicamente, e ci concede volentieri una intervista.
Maestro, cosa significa oggi essere un compositore? Quanto è cambiata secondo lei questa professione nel tempo?
Per come la vedo io, la figura del compositore per quanto sia mutata nel corso del tempo si inquadra e si identifica con la storia stessa della musica occidentale colta: uno specialista in possesso di strumenti tecnici tradizionali più o meno raffinati che gli consentono di creare agevolmente strutture musicali pressoché infinite, dalle più semplici alle più complesse. Naturalmente il talento, e talvolta la genialità, sono una variabile del tutto indipendente dalla formazione acquisita: in ogni epoca, a un sommo Mozart corrisponde un mediocre Kozeluch, altrettanto formato e altrettanto specialista. In questo contesto il vero punto di rottura avviene, secondo molti, nella prima metà del Novecento, quando prima il jazz e poi altri linguaggi musicali che condurranno all’epopea del rock e del pop, scombinano il concetto tradizionale di musica e portano scompiglio anche nella definizione di che cosa sia la “composizione”. Chi potrebbe affermare che i non-diplomati Miles Davis o Paul McCartney siano stati meno “compositori” di altri in possesso di regolare pedigree? La situazione è – se vogliamo – ancora più complicata e la definizione ancora più evanescente oggi, in piena era post-moderna. E le diverse declinazioni, le tante nuove applicazioni della musica, rivelano un panorama molto ampio, molto vivace della composizione contemporanea, un panorama ricco di sovrapposizioni e di specializzazioni più o meno inedite: un esempio d’elezione lo si ritrova nell’ambito della musica per il cinema così come si è andata evolvendo in questi ultimi vent’anni.
Tra i registi con cui lei ha lavorato – nomi del calibro di Marco Bellocchio, Mimmo Calopresti o Sabina Guzzanti – quali sono quelli che maggiormente hanno tirato fuori la sua creatività? E perché, secondo lei?
I livelli e le diverse condizioni nella collaborazione hanno sempre regolato il mio feedback creativo: se con i film e gli spettacoli della Guzzanti mi sono divertito come poche altre volte nella mia vita a inventare e a “smontare” le strutture abituali della musica di commento e di scena, con Bellocchio ho avuto la possibilità di sperimentare e innestare materiali sonori inusuali in contesti cinematografici “alti” (soprattutto in lavori come “L’ora di religione” e “Buongiorno, notte”) avendo accanto un grande regista molto musicale ed estremamente attento in generale al suono e alle sue potenzialità al servizio dell’opera cinematografica. E comunque in ogni nuovo film e nel rapporto con qualsiasi regista cerco sempre di partire dalle esigenze interne al film e, a seguire, mi confronto con quelle del regista, lasciando all’ultimo posto in questa specie di gerarchia le mie proprie idee musicali: credo che in questo risieda il senso stesso dell’applicazione della musica al cinema, almeno dal mio punto di vista.
Frequenta la Francia da tanto per motivi professionali: quali sono le principali differenze per chi fa il suo mestiere se comparate con la medesima professione in Italia?
Francia e Italia, pur confinanti, sono imparagonabili sia per l’attenzione delle istituzioni nei confronti della musica e delle arti in genere, che per l’investimento pubblico nella ricerca, nella formazione e nell’insegnamento. Il gap è enorme anche tra le diverse declinazioni dell’industria nazionale dello spettacolo, cinema in testa: in ogni fase, in ogni piccolo passo nell’ideazione, nella realizzazione e nella promozione di un film in Francia, hai la precisa sensazione della vicinanza e della partecipazione attiva di uno Stato che ha a cuore i destini di un’industria culturale nazionale. Possiamo dire lo stesso di quanto avviene da decenni nel nostro paese? La domanda è retorica. L’università e la formazione sono un discorso a parte e qui il dislivello, se vogliamo, è ancora più patente e il confronto diviene crudele. A Parigi, prima del Covid, tenevo le lezioni e i seminari direttamente al cinema, con le proiezioni spesso in pellicola e il suono standard di sala: tutto in funzione di un’immersione e di un coinvolgimento quanto più diretti possibile dell’insieme degli studenti, che poi sono i ricercatori, gli studiosi, i compositori e i cineasti di domani. Là dove si cerca di sviluppare un’autentica consapevolezza in chi si avvicina ai sentieri della conoscenza, evidentemente non si bada a spese. Dal nostro punto di vista e nelle nostre condizioni, in fondo basterebbe copiare.
Lei fa attualmente parte del direttivo della Associazione Compositori Musica per Film. Di cosa si tratta, e quali sono i vantaggi professionali ad appartenere a questa realtà.
A mio avviso si tratta di una delle esperienze più belle, nuove e coinvolgenti di questi ultimi anni nell’Italia della musica. L’ACMF nasce dal desiderio di molti tra i compositori italiani di musica per il cinema di trovare un luogo per discutere, per confrontarsi e per mettere in campo nuove idee al servizio di un mestiere che nel nostro paese ha una storia bellissima e illustre. E’ anche un’occasione preziosa di lotta: i musicisti italiani del cinema cercano di ottenere dalle strutture istituzionali e produttive quel riconoscimento dovuto e quei diritti così a lungo negati e conculcati. Ci si è dimenticati un po’ troppo spesso, in Italia, che il compositore della colonna sonora originale è uno dei quattro autori ufficiali del film, assieme a regista, sceneggiatore e soggettista, e non c’è dubbio che il suo ruolo è stato ridimensionato in modo sempre più pesante, quasi punitivo. Ennio Morricone, che in questi anni è stato il nostro presidente onorario, ha accettato con entusiasmo di darci una mano soprattutto in considerazione di queste necessarie rivendicazioni, non più rinviabili. Ed è inoltre molto interessante che in questo ambiente, da sempre piuttosto individualista e composto largamente da “battitori liberi”, si sia cercata una formula associativa che veda insieme i giovani e i meno giovani, gli autori affermati e quelli che si stanno appena avvicinando a una professione difficile ma ancora affascinante.
Un suo personale ricordo di Ennio Morricone.
A proposito di Morricone ho un minuscolo ricordo personale, ma forse significativo nell’illuminare in controluce uno dei tratti della sua personalità prismatica. Qualche anno fa un amico giornalista organizzò una serie di incontri sulla musica cinematografica e mi coinvolse, assieme a un gruppetto di colleghi compositori di colonne sonore. Alla fine si decise di attribuire un piccolo premio simbolico alla carriera a Ennio Morricone, e inaspettatamente venne lui stesso, di persona, a ritirarlo. Tra tutti toccò a me consegnarglielo, in qualità di musicista più anziano. Dopo un paio di mesi lo incontrai di nuovo, alla Casa del Cinema di Roma. “Buonasera Maestro, come sta?”. E lui, serio serio: “Noi ci dobbiamo dare del tu. E mi devi chiamare Ennio”. Di fronte al mio imbarazzo e alla mia naturale ritrosia, argomentò in quel suo modo classicamente perentorio: “Tu mi hai dato un premio, mi hai premiato, hai premiato la mia musica”. Ecco, evidentemente per lui, per questa star superpremiata in tutto il mondo, un riconoscimento per quanto minuscolo non era mai trascurabile, mai poco significativo: come se la musica – fibra immateriale, priva di sostanza tangibile e figlia dell’aria – avesse bisogno, in sé e sempre, del riconoscimento altrui per avere peso, per prendere corpo. Una bella lezione di musica, ma forse anche di molto altro.
I prossimi progetti, Maestro?
In questi ultimi anni mi sto dedicando in modo quasi esclusivo alla musicazione di documentari. In Italia il documentario ha una sua storia specifica e una sua gloriosa tradizione, e in questi anni una nuova generazione di documentaristi italiani cerca di tenersi all’altezza di quella storia, spesso con successo. Certo, i budget per le musiche sono piuttosto esigui, ma la pressione dei produttori è molto minore che non nel cinema di finzione e con i registi si può parlare, discutere e incontrarsi senza isterismi né megalomanie. E oltretutto un cinema che intende fare i conti direttamente con la realtà è interessante in sé, soprattutto in questi anni di rapidi cambiamenti e di conflitti inediti. Sto lavorando a un nuovo, affascinante progetto di Roland Sejko, uno straordinario documentarista albanese arrivato in Italia con le navi del grande esodo e ormai stabile da anni nel nostro paese. Roland è stato premiato nel 2013 con un David di Donatello per il suo film “Anija” (La nave), e un paio d’anni fa abbiamo iniziato a lavorare insieme con un altro documentario, “Come vincere una guerra”, un lavoro molto originale sulla Prima Guerra Mondiale. Si è creata un’intesa immediata, del tutto spontanea, tra le idee di questo regista e del montatore Luca Onorati e i miei suoni: e il lavoro comune ora prosegue con un nuovo film, che stavolta oscilla tra finzione e montaggio di documenti di repertorio. Lo finiremo entro l’anno in corso.