DI CARLO PATRIGNANI
Cento pagine per conoscerla, declassata a ‘male oscuro’, con le sue svariate sfumature, e riconoscerla prima per poi poterla curare e guarire, nel setting, con l’interpretazione dei sogni.
Edito dalla casa editrice ‘L’Asino d’oro’, parliamo del formativo saggio ‘Una depressione’ di Massimo Fagioli, il ben noto psichiatra dell’Analisi collettiva, quel fenomeno sociale, e politico, che ha edificato, nel corso dell’ultimo mezzo secolo, con la rivoluzionaria ‘Teoria della nascita’, una nuova, originalissima cultura psichiatrica.
Le cento pagine dell’istruttivo saggio si snodano dalla perfetta prefazione della psichiatra e psicoterapeuta Annelore Homberg, all’articolo dello stesso Fagioli, denominato ‘le quaranta pagine’ e comparso sulla rivista ‘Il Sogno della farfalla’ (1993), dove primeggiano potenti immagini e stile altamente poetico, ad una libera intervista (1998), cioè senza canovaccio, che si svolge nella chiara esplicitazione intrecciata con preziose immagini.
“Non so davvero il perché della mia tristezza. Essa mi stanca e, a quel che dite, stanca pure voi, ma ho ancora da sapere come l’ho presa o trovata, o come me la sono procurata, di che sostanza sia e donde sia nata. È una tristezza che mi rende tanto stupido che stento a riconoscermi”.
L’incontro vero e proprio con la ricerca sulla depressione (1996) è stato questo: il dramma di Antonio, ascoltato con grande sorpresa al telefono, magistralmente descritto da William Shekspeare in ‘Il mercante di Venezia’.
Da quel momento, è stato un continuo distinguere, raffinato, sofisticato e sempre più profondo, tra stati d’animo diversi: tristezza e malumore, malinconia e depressione, tra contentezza e gioia, felicità (“un totale inganno”) ed euforia, soddisfazione e realizzazione.
Ricerca culminata nell’improvvisata intervista sul ‘male oscuro’ del 13 febbraio 1998, preceduta qualche mese prima (24 dicembre 1997) da un’altra sul disagio giovanile e l’uso ed abuso delle sostanze psicotrope per denunciare ‘la cultura della droga’.
Ma la denuncia non si limitava ad evidenziare i risvolti culturali, sociali e politici, essa prendeva di petto, senza mediazioni, la distinzione netta tra la depressione patologica per cui si spegne la gioia di vivere, si vede tutto ‘nero’, e di colpo si è avvolti nella disistima per cadere nello ‘stupor depressivo’ e la schizofrenia lucida e fredda per cui si commettono omicidi efferati ed incomprensibili.
Come accadde nella notte tra il 25 e 26 maggio 1995 a Firenze: la nobildonna Alessandra Bresciani Torri, in cura farmacologica per depressione, uccise il figlio di 5 anni Ludovico perchè piangeva e poi tentò il suicidio.
La denuncia di Fagioli, “manca la ricerca sulla malattia mentale, non si fa alcuna ricerca sull’inconscio umano prima che sulla coscienza ed il comportamento”, irruppe nello sterile dibattito sulla posologia farmacologica: “bisogna andare oltre il farmaco che non modifica le immagini ed il pensiero malati che il malato di mente si porta dentro. La malattia mentale sta nell’inconscio: va fatta chiarezza su una zona per così dire oscura […] Curare significa non prendersi cura ma togliere la malattia”.
Dalla ‘cultura della droga’, Fagioli gradualmente passò in quegli anni segnati da efferati incomprensibili delitti alla “denuncia della normalità assassina” distinguendo sempre più profondamente la depressione dalla schizofrenia, di cui lo psichiatra aveva nel suo primo libro ‘Istinto di morte e conoscenza’, edito nel 1972, riportato il caso clinico ed esposto la sua grande scoperta come rimarca nella prefazione la Homberg, cui rimando.
Lascio il terreno psichiatrico e, per aver rubato alla Homberg la stimolante proposizione della depressione, per così dire ‘sociale’, connessa ad eventi politici drammatici che hanno segnato la storia dell’umanità, il crollo del Muro di Berlino (1989), vorrei aggiungere un approfondimento datato 1999 il cui autore è Fagioli.
Proprio in quell’anno lo psichiatra propone nettissimamente la separazione dal marxismo, quale via non secondaria per la cura e guarigione dalla depressione.
“Abbiamo voluto sfidare l’impossibile: raccontare attraverso tre immagini femminili, tre volti di donna, il fallimento di quella cultura che ha padroneggiato la vita degli esseri umani nell’ultimo secolo. Una cultura che ha avuto nel marxismo, punta di diamante che va dall’Illuminismo al Socialismo di fine Ottocento, il suo punto di riferimento”.
Marxismo che poi (1968) inglobò in sè il freudismo: “teorie che avrebbero dovuto la fare le rivoluzioni e addirittura trasformare il mondo usando quel metodo di pensiero detto razionale nato e sempre servito per non fare le rivoluzioni e per non trasformare il mondo”.
Era il 1985 e “qualcuno immune da quel dogma marxiano per cui tutti saremmo influenzati dalla cultura, trovava il modo di fare, costruire, proporre tre volti, tre espressioni, tre immagini della stessa donna. Mettersi sul lettino dello psicoanalista freudiano equivaleva a sdraiarsi sul divano in preda allo stupor depressivo: non c’era differenza. La cura non esisteva, la malattia non aveva trovato il suo antidoto. Ma poi compare inaspettatamente l’immagine finale di una cura riuscita per il rifiuto di quel miscuglio ingannevole di marxismo e freudismo che avevano promesso la liberazione dell’essere umano”.
Il riferimento è al bellissimo film di Marco Bellocchio, ‘Diavolo in corpo’, al quale Fagioli collaborò attivamente sul set.
“E venne l’89 l’anno del crollo dell’elefante, il muro di Berlino, ma anche l’anno in cui la pulce dava alle stampe la premessa al terzo libro. Ed essi, dopo 15 anni…..vennero a farsi interpretare i sogni, vollero sapere perchè nella notte comparivano le immagini. E furono tre volti, tre espressioni, tre immagini della stessa donna. Irriverente aveva già vinto la partita con l’uomo mediocre, razionale, cioè senza fantasia e senza gioco. Immagine questa certamente più compiuta della prima. E il confronto con il marxismo doveva continuare”.
Fagioli si riferisce alla protagonista del film ‘La condanna’ (1992) di Marco Bellocchio: lo psichiatra anche questa volta fu sul set a comporre immagini.
“E arrivò il ’97 e comparvero tre volti, tre espressioni, tre immagini della stessa donna che, composte senza intenzionalità, rivelano poi una realtà di espressione che deve condurci ad una visione della realtà umana molto più profonda di quella che può fare una rappresentazione di immagine che, in verità, non ha nessuna intenzionalità di indicarci qual’è la strada per la comprensibilità degli altri.
Possiamo ben dire e rivendicare da subito che il fallimento del marxismo sta nel non aver mai pensato o ipotizzato di poter legare, di fare il nesso tra l’irrazionale e l’immagine femminile, la donna”.
Storia che si è ripetuta prima nel gennaio e poi nel luglio 2008 nel confronto-scontro iniziato nel 2004 con il leader di Rifondazione comunista e poi presidente della Camera, Fausto Bertinotti che dai buoni propositi di “rifondare il comunismo” è rimasto impelagato nel comunismo prigioniero del marxismo-leninismo, nella e per la visione di una bella, disinvolta e libera donna per aver realizzato a pieno l’immagine femminile.