BINOMIO LAVORO-DIGNITÀ. CIÒ CHE CONTA È L’IDENTITÀ

DI COSTANZA OGNIBENI

Questo articolo è disponibile anche sul mio blog.

Rileggo un articolo scritto qualche mese fa, piuttosto risentita con una giornalista che riportava, dall’alto dei palinsesti, il consueto, deleterio binomio lavoro-dignità. E lo faceva in piena fascia pomeridiana, che non è certo un prime time, ma rimane comunque piuttosto seguita, soprattutto nell’era del Grande Dittatore – alias Covid-19 – che ci costringe tutti a casa, a cibarci di torte home-made e cultura mass-mediatica, a ingrassarci nel corpo così come nell’animo.

Lo rileggo, e faccio tesoro di quelle parole, che, contrariamente alla voce gracchiante della conduttrice che parlava del binomio lavoro-dignità, hanno un effetto balsamo sulla pelle e mi spingono a ragionare su quei suicidi per perdita del posto di lavoro, che, paradossalmente, avvengono in misura maggiore nei Paesi sviluppati rispetto a quelli meno sviluppati, divenendo dunque l’esito di un processo che porta l’essere umano a vedere la sua unica identità nella sfera razionale.

Ma si tratta di un’identità parziale, abbiamo detto, una non-identità, in fin dei conti, poiché esclude tutto quel mondo di affetti e creatività che da sempre lo distingue dagli animali: un mondo guidato da una volontà di cercare, di andare oltre, per poi creare qualcosa di nuovo – musica, arte, poesia. Ma anche, semplicemente, rapporti non finalizzati per forza alla propagazione della specie, ma a un semplice e puro star bene. Fare cose belle insieme. Cose definite inutili perché completamente fini a se stesse e non indirizzate, appunto, alla produzione di qualcosa di utile per la propria sopravvivenza.

Tutto verissimo, ma a voler essere più precisi, perché poi uno ci ripensa come i cornuti, non è nemmeno del tutto giusto vedere il lavoro come qualcosa di antitetico alla propria sfera creativa o affettiva; 8-10 ore che vanno messe tra parentesi perché la vita è qualcos’altro.

Non si può creare il binomio lavoro-dignità, ma non è nemmeno del tutto giusto farlo diventare una dicotomia. È giusto che ognuno di noi si chieda cosa diamine ci fa su questa terra e in che modo può fare qualcosa per gli altri, come possa mettere a disposizione le proprie capacità per un progetto di più ampio respiro, che sia contribuire a far crescere il fatturato di un’azienda mettendo a disposizione le proprie capacità, o insegnare nelle scuole; curare le persone o progettare case. Ed è giusto che questa domanda sulle proprie capacità, inclinazioni e cosa sia la cosa che più ama fare, se la ponga quotidianamente, finché non trova una risposta. Non è detto che sia solo una – magari uno ama fare più cose – ma la cosa importante è che una volta che l’ha trovata, faccia il possibile per metterla in pratica. A quel punto arriva il confronto con la realtà: una realtà che non si mostra certo come incoraggiante, ma anzi fa il possibile per evitare che le persone si realizzino, e l’impossibile affinché demordano, arrivando perfino a pensare di essersi sbagliate. Una realtà che di porte in faccia ne chiude fin troppe e crea disagio, malessere, confusione. Uno stato che in tempi di Covid non fa che crescere in modo esponenziale.

E dunque, stando così le cose, con la consapevolezza che l’identità umana non risiede nell’identità sociale ma nella perla delle perle – vien da chiedersi – che cavolo ci facciamo?

Ci facciamo una bella distinzione che forse in tempi di confusione come questi può tornare utile. Mi vengono in soccorso le parole di un bravo psichiatra, Andrea Piazzi, che intervistai qualche tempo fa e al quale, dopo che mi aveva fatto una bella digressione su questa identità umana (“un’identità emersa alla nascita e che l’essere umano trascorrerà il resto della vita a dover ricreare per consentirne lo sviluppo. Un’identità che è assolutamente personale, unica, e quindi poi dopo qualche anno viene fuori l’architetto, l’ingegnere, il poeta, l’artista…o il contadino! A ognuno la sua”) mi era venuto spontaneo chiedere: “Torniamo sul piano professionale, dunque?”

Assolutamente no. Quello che è importante è il riconoscimento personale. Poi se uno vuole, può anche cercarlo da parte della società, ma non è fondamentale. Tanti artisti sono stati riconosciuti solo dopo la morte, ma non per questo erano meno artisti di chi ha potuto vivere e godere della propria gloria. Con il discorso sul lavoro e sul riconoscimento sociale torniamo alla sfera dei bisogni, importanti anche quelli, per carità, ma ciò che rimane fondamentale è questa distinzione per capire cosa è davvero necessario per lo sviluppo della propria identità”.

Ecco dunque il nodo, il tassello che mancava alla riflessione su questo maledetto binomio lavoro-dignità: perdere il lavoro diviene causa di episodi di cronaca nera laddove si cerca solo nel riconoscimento da parte della società quello che deve essere un riconoscimento in primis personale. Non sarà facile, in questo periodo, mettere in pratica tante professioni ma non per questo saremo meno ristoratori, tour operator, artisti teatrali o cantanti. Per come si stanno mettendo le cose, non sarà facile ricevere riconoscimenti da parte della società post covid in questo senso, ma forse il modo migliore per opporre resistenza sarà insistere e non mollare, affinché quell’identità emerga comunque in qualche modo. Riconoscerla prima a se stessi e poi spendere la propria vita per provare e riprovare a metterla comunque in rapporto con il mondo.

Foto di Sharon McCutcheon da Pexels