DI VIRGINIA MURRU
Stasera potrebbe essere ‘l’ultima cena in clima di Brexit’ tra il premier britannico Boris Johnson e la presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen. Nonostante le dichiarazioni di buon senso degli ultimi giorni, da entrambe le parti, e un certo cauto ottimismo, lo spettro del ‘no deal’ aleggia ancora intorno al tormentone Brexit, da più di un anno ormai.
Sarà comunque l’ultima vera possibilità, per dirla all’inglese ‘a roll of the dice’ che porterà il 1° gennaio 2021 il Paese di Sua Maestà fuori dall’Unione, a navigare ‘in solitaria’ verso altre sponde in termini di scambi commerciali.
I tempi della procedura per un’uscita ordinata del Regno Unito dall’Ue stanno per scadere, l’accordo deve essere raggiunto entro il 31 dicembre, altrimenti scatteranno le norme concernenti l’Organizzazione mondiale del commercio, con le clausole che fanno riferimento all’applicazione di dazi e dogane.
In ambito Ue si esorcizzano le impennate tipiche del premier inglese, che si è sempre dichiarato pronto a giocarsi tutto, anche a rischiare il no deal, pur di non cedere sui tre nodi ancora irrisolti dell’accordo, che implicano cedimenti e compromessi da parte della Gran Bretagna, soprattutto in merito alla gestione dei confini tra Ulster e Repubblica d’Irlanda.
Fra le divergenze più dibattute, che riguardano la pesca, l’Internal Market Bill e la governance, uno degli scogli più duri da abbattere sembra la pesca, dato che è una questione di confini e di accesso alle acque ricadenti in particolare tra la giurisdizione del Regno Unito e della Francia.
Fino a quando il Regno Unito ha fatto parte dell’Ue, i pescatori francesi e britannici hanno potuto avere accesso alle acque indipendentemente dai limiti stabiliti dai rispettivi confini. Anche se per ovvie ragioni l’Unione europea fissa ogni anno delle regole precise, espresse in quote su ogni specie oggetto di pesca.
Ora che il RU sta per abbandonare l’Ue, dovrà osservare la legislazione di uno Stato costiero indipendente in termini di confine. Nella sua area di competenza territoriale (corrispondente a 200 miglia nautiche nel Nord Atlantico), Londra chiede più autonomia nella gestione di negoziati annuali per le quote, dunque più potere decisionale in merito alla pesca.
Intanto, per quel che riguarda il confine con la Francia, il presidente francese Macron non è disposto ad alcun cedimento, egli vorrebbe continuare a mantenere il diritto di sfruttamento della pesca con accesso alle acque britanniche, così com’è disciplinata oggi dalla normativa vigente.
Cosa che chiaramente non può andare bene a Johnson. Anche se non rappresenta lo zoccolo più duro fra i tre irrisolti, ha comunque finora impedito il raggiungimento di un accordo. E’ opinione comune in ambito Ue, che BoJo potrebbe arrivare ad un compromesso su questo punto, considerato che la pesca non svolge un ruolo di grande rilevanza nella bilancia commerciale del suo Paese.
Le due parti in causa, nell’incontro che avrà luogo a Bruxelles stasera, si concentreranno maggiormente sull’Internal Market Bill, ossia l’ultimo colpo di coda di Londra che rimette in gioco gli accordi relativi al Protocollo Irlanda, secondo cui non si può più introdurre una frontiera fisica al confine con l’Ulster.
L’accordo sui negoziati per il futuro partenariato tra Gran Bretagna e Ue, passa soprattutto da qui. I confini tra Irlanda e Ulster erano e restano un’insidia, e venirne fuori con un’intesa che soddisfi entrambe le parti, non è semplice. Johnson ha fatto un passo avanti al riguardo negli ultimi tempi, dato che aveva in definitiva deciso di ignorare i cosiddetti accordi del Venerdì Santo fissati nel 1998.
A questo suo parziale ripensamento ha contribuito anche il neoeletto presidente degli Usa, sensibile al problema in quanto di origini irlandesi, ma soprattutto perché gli Stati Uniti, proprio dal ’98, si sono resi garanti di questi accordi.
Oltre alla questione pesca e Internal Market Bill, c’è da superare la divergenza tra le parti riguardante la ‘parità di condizioni’, ovvero regole precise sulla concorrenza, affinché le imprese britanniche non abbiano vantaggi in più.
A questo riguardo, l’Ue è disponibile ad offrire alla ‘controparte’ un accordo commerciale che esclude quote e dazi doganali, ma non può accettare lo sviluppo di un’economia ‘deregolamentata’ ai suoi confini, che in modo sleale competerebbe con quella dei Paesi Ue.
L’altro enigma è la governance su possibili contenziosi giuridici che potrebbero presentarsi in futuro. Questi punti ancora da definire, rappresenterebbero il 5% dell’intero accordo sulla Brexit. E il periodo di transizione sta per scadere, ma del resto non si può prescindere, si tratta di importanti carte ancora da giocare.
Secondo fonti di Downing Street, consultate dal Times, la corda è ancora tesa, e non pronta a spezzarsi sulle divergenze in atto: “Se si facessero progressi a livello politico, si potrebbe consentire a Lord Frost e al suo team di riprendere i negoziati nei prossimi giorni. E tuttavia occorre restare con i piedi per terra, un‘intesa tra Johnson e la Presidente della Commissione Europea potrebbe non essere possibile.”
La Francia minaccia il veto, lo ha fatto sapere tramite il ministro per l’Europa, Clément Beaune; non vuole sentire parlare infatti di accordo commerciale post-Brexit, se risultasse negativo per gli interessi della Francia sui diritti di pesca, o se non ci fosse conformità sulla ‘parità di condizioni’.
Ma sono tanti gli esponenti politici dell’Unione che non intendono fare concessioni al Regno Unito, se il prezzo è quello di mettere a repentaglio i diritti e gli interessi dei rispettivi Paesi. Sono proprio queste resistenze a portare i negoziatori verso l’intransigenza sui passi più discussi del trattato. Ed è per questo che in queste ultime settimane la tensione è palpabile, e l’ottimismo non si spinge oltre l’orgoglio di tenere le proprie posizioni.
Per questo lo spettro del no-deal è sempre in agguato, conoscendo la risolutezza di Johnson non c’è davvero ragione di essere ottimisti.
Comunque vada a finire il processo Brexit è cominciato il 24 giugno 2016, ed è ormai diventato irreversibile dopo il successo elettorale ottenuto dal premier britannico, che di fatto ha sancito anche la supremazia dei ‘Leave’.
L’uscita del Regno Unito dall’Ue, non sarà indolore, l’economia ha già lasciato diversi punti percentuali sul campo, e la sterlina non si è certo rafforzata. Ora che il Paese è alle prese con l’assalto del Covid, dovrà anche bypassare le conseguenze del passaggio definitivo ad un’economia indipendente. Fuori dal mercato ‘protetto’ dell’Unione Europea, dal quale indubbiamente ha tratto i suoi vantaggi. Perché il mercato dell’Unione rappresenta 550 milioni di persone, in termini di popolazione, e non sarà semplice soppiantarlo con altri accordi commerciali.
Questo la classe dirigente britannica lo sa, nonostante sia stato considerato un dettaglio. E il feeling con il presidente americano Biden è altra cosa, non ci sono le premesse politiche per confermare le medesime complicità promesse a Johnson da Trump. Il premier britannico contava molto sulla sua rielezione, in gioco c’era un possibile grande accordo commerciale, il neoeletto non partirà dagli stessi presupposti, è infatti sua intenzione ‘recuperare’ i rapporti compromessi con l’Ue, mettendo in primo piano le tante ragioni dell’alleanza che legano gli Usa all’Europa.
Un bilancio di questo ‘azzardo’ la Gran Bretagna lo potrà fare tuttavia solo tra alcuni anni. Allora si potrà capire se le fratture si saranno saldate agevolmente, o se l’economia di Sua Maestà continuerà a lungo a pagare il suo tributo al desiderio di isolarsi dal resto dell’Europa.