DI PATRIZIA CADAU
Adesso facciamo un test.
Nelle foto ci sono tre donne.
Una psicologa.
Un’avvocata.
Una caporalmaggiore dell’esercito italiano e campionessa di tiro a segno.
Cos’hanno in comune queste tre donne?
Sono morte ammazzate da un compagno violento dopo un lungo periodo di maltrattamenti.
Eh lo so. Non pare vero eh, che tra le vittime di violenze ci siano donne affermate, con compagni che non provengono proprio dalla caverna, che siano donne con un’autonomia, e che siano riconducibili, nell’immaginario collettivo, a quel perimetro sicuro di persone dotate di strumenti per difendersi.
E invece no.
Perché la violenza domestica è estremamente democratica, non è classista, e può davvero capitare a tutte.
Tutte.
Non guarda in faccia nessuna, e nessuna può dirsi immune.
Teodora era una psicologa stimata.
Forse che proprio una psicologa non aveva gli strumenti per riconoscere l’orco di casa? È stata uccisa insieme a suo figlio di 5 anni.
Raffaella invece era un’avvocata che viveva col terrore di morire e mandava le foto del proprio volto tumefatto alle amiche, disperandosi per il proprio bambino di sei anni. È stata uccisa a fucilate.
Poi Marianna.
Caporalmaggiore dell’esercito e campionessa di tiro. Morta dopo un pestaggio. Aveva denunciato. Aveva un figlio di pochi anni. Una volta per scappare dal compagno violento aveva fatto un volo di due metri dalla finestra.
Secondo la narrazione tossica, chi meglio della psicologa avrebbe dovuto capire, chi meglio dell’avvocata avrebbe potuto denunciare, chi meglio della soldata avrebbe potuto rispondere ai colpi.
Ma la violenza domestica è altro: e gli strumenti cui puoi aggrapparti sono una grande fortuna, la solidarietà di una comunità, la risposta immediata delle istituzioni.
Punto.
La violenza domestica è un abuso perpetuato in maniera impercettibile prima, violenta quando è troppo tardi, che agisce sui nostri istinti primordiali, sulla necessità di fidarci di una relazione e di dare per scontato che in una relazione affettiva e sentimentale si sia amati, voluti bene.
Non è roba che al primo schiaffo gli molli, se ci riesci, una randellata sulle gengive.
Al primo schiaffo sei stremata da un lungo periodo in cui tutte le tue difese e resistenze sono state polverizzate. Per questo arriva lo schiaffo.
E perché sostanzialmente, seppure le nostre foto coi lividi circolino nelle richieste d’aiuto, nessun’indagine partirà d’ufficio, nessuna denuncia avrà il rispetto che merita, ogni donna si sentirà vinta.
Ancora prima che quello schiaffo arrivi.
Di questo sono colpevoli tutti.
Tutti.
Chi esercita l’abuso, chi lo copre, e poi le istituzioni, che se sopravvivi ci pensano loro a darti la mazzata finale.