SE DRAGHI RIATTUALIZZASSE IL SUO MAESTRO KEYNESIANO CAFFE’

DI CARLO PATRIGNANI

Lo studio e la ricerca sono importanti quanto lo sono i rapporti con le persone, diceva ai suoi allievi, e, coerentemente con quel che diceva, Federico Caffè l’apprezzato economista keynesiano, si spostava sempre in autobus: voleva vedere in faccia la gente, capire come se la passava: l’economia, per lui, non era, non doveva essere mai scissa dalle condizioni di vita delle persone, tanto da rivolgerla al benessere delle persone.

Tra poche settimane ricorre il giorno, 15 aprile 1987, della sua misteriosa scomparsa e nel frattempo uno dei suoi tanti allievi, Mario Draghi, si accinge a salire al Colle per sciogliere la riserva e formare il nuovo governo.

E chissà se il neo-Premier non intenda riattualizzare l’insegnamento del suo maestro, sostenitore della necessità di assicurare alti livelli di occupazione e di protezione sociale: poichè il mercato – teorizzava Caffè – è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per se distorsivo e vessatorio e non si può non prendere atto di un recente riflusso neoliberista.

Erano i primi anni Settanta e Caffè metteva in guardia – anche la sinistra attraverso i suoi articoli sul Manifesto – dalla comparsa di un pernicioso riflusso neoliberista, dal meno Stato più mercato si sarebbe arrivati al trionfo del laissez faire il mercato.

Unitamente al pernicioso riflusso neoliberista prendeva corpo la tendenza del capitalismo a dirottare i profitti dai reinvestimenti nella produzione verso le più redditizie rendite finanziarie: era l’inizio del capitalismo finanziario.

Ispiratore ed artefice di questa inversione di rotta, che sanciva la fine delle riforme di struttura del primo centro-sinistra (1960) di Amintore Fanfani: la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la scuola dell’obbligo, la riforma fondiaria, la riforma urbanistica che nel decretare la fine della rendita fondiaria voleva scongiurare la speculazione, non passò, fu l’elegantissimo uomo, il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli.

E all’elegantissimo uomo di Palazzo Koch, Riccardo Lombardi, che contribuì non poco all’avvio del governo Fanfani, riservò una critica aspra, senza mezzi termini, alla Camera dei Deputati: lo accusò di incapacità o non volontà nel contrastare efficacemente quello che chiamava uno dei vermi roditori, dei princìpi di cancro della nostra economia, l’espatrio di capitali all’estero, causa principale dell’anemia sull’afflusso degli investimenti, che era dovuta, secondo un terrorismo mediatico, agli aumenti salariali.

Un fenomeno rilevante, l’occultamento dei capitali, sul quale la Banca d’Italia non aveva esercitato – per Lombardi – il controllo dovuto, tenendo un comportamento passivo, un’attesa miracolistica del valore risanatore e auto-risanatore del mercato.

In quel riflusso neoliberista è difficile – evidenziava, ripeteva, il keynesiano Caffè che mai si prestò a fare il consigliere del Principe per restare libero ed autonomo – indivuarvi un apporto intellettuale innovatore.

Ma quel riflusso neoliberista insieme all’occultamento, grazie il segreto bancario, dei capitali permise agli imprenditori non solo di evadere il fisco, ma di dirottare i profitti dalla virtuosa strada dei reinvestimenti nelle attività produttive verso le ben più remunerative rendite finanziarie: tendenza che divenne il mantra egemone senza risparmiare purtroppo neanche la sinistra.

E Caffè, attentissimo lettore delle annuali Relazioni della Banca d’Italia, dove aveva lavorato prima di esser docente di Politica economica e finanziaria alla Sapienza, stimatissimo punto di riferimento di Lombardi come di Bruno Trentin e Giorgio Ruffolo, nel toccare con mano la solitudine del riformista, smise di fare la passerella in convegni, anche di alto livello, infastidito dal trasformismo di tanti un tempo marxisti ortodossi, fattisi improvvisamente, d’amblè, consiglieri del Principe, del neoliberismo.

Draghi ha dunque un’occasione irripetibile: riattualizzare la lectio magistralis di Caffè, il suo maestro che non volle mai dar vita ad una scuola di pensiero con il nome pur avendo avuto fior di economisti tra i suoi tanti allievi (da Draghi ad Amoroso, da Visco a Tarantelli, da Vicarelli ad Archibugi etc) ed estimatori, come Lombardi, Trentin, Ruffolo.