WHAT IS LEFT?

DI REDAZIONE

La sinistra in Italia ha 129 anni, dalla nascita del partito socialista. La sua componente comunista 100 tondi, dalla scissione di Livorno. Entrambe mostrano appieno la loro età, e la difficoltà sempre più evidente a coniugare i lineamenti originari con le contraddizioni del mondo nuovo, che ha scavato iniquità e squilibri impossibili da sanare o almeno ridurre con i vecchi strumenti della lotta e della rappresentanza di interessi. Ma c’è altro: le battaglie sociali e civili del secondo Novecento sono state sostanzialmente vinte, diritti e tutele restano tra i più avanzati del mondo, e la sinistra sembra diventata afasica. Un secolo fa nelle tessere dei militanti era immancabile un simbolo, il sole al centro dell’orizzonte: quel sol dell’avvenire che simboleggiava un futuro, IL futuro. Oggi le sinistre, in Italia e in tutta Europa, non elaborano più futuro, non trovano rappresentanza di spinte innovative verso obiettivi qualificanti, e si limitano (non è poco ma non basta) a proporsi a emblema della buona amministrazione. Del resto la loro lunga storia ha permesso la formazione di tante figure capaci, e la antica struttura partitica ha consentito di presidiare i territori meglio delle altre forze. Non a caso in gran parte del continente le forze socialiste sono minoritarie, al governo o all’opposizione, ma molto spesso sono alla guida delle grandi città. E peraltro ovunque è avvenuto il ribaltamento storico per cui i serbatoi di voti a sinistra sono nei centri storici mentre le destre intercettano il disagio delle periferie. Da tempo gli intellettuali che ne hanno a cuore le sorti discutono partendo da quel doppio senso in lingua inglese, what is left, che vuol dire “cosa è la sinistra”, ma anche “cosa è rimasto”. Qui da noi anche questo dibattito sembra essersi essiccato, da troppi anni – ormai un quarto della sua storia – la sinistra si identifica per esclusione, per contrapposizione, prima a Berlusconi, poi a Grillo, poi a Salvini, non disdegnano però, nel momento della stretta, di governarci insieme. Riserva le sue maggiori e insanabili intolleranze alla propria vita interna, volta a volta per i Craxi, i D’Alema, i Renzi. È del resto lo stesso morbo che ha portato il suo principale veicolo politico del nuovo secolo, il partito democratico, a consumare sette segretari in tredici anni (avendo peraltro nello stesso lasso di tempo quattro presidenti del consiglio, nessuno dei quali di formazione comunista o socialista). Dei sette segretari uno solo oltre a Zingaretti è ancora nel Pd. Negli ultimi quattro anni dai fuoriusciti sono nati Articolo 1, Mdp, Possibile, Azione, Italia Viva. Il partito a vocazione maggioritaria immaginato dal suo primo leader, Veltroni, si è trasformato in altra cosa. Tornato al governo un anno e mezzo fa, ha ripetuto la parabola del Pigmalione, credendo di insegnare “come si fa” ai giovani alleati 5 stelle e finendo per sembrarne soggiogato. Ora per il Pd e la sinistra è più che mai – letteralmente – questione di vita o di morte decidere cosa vuol essere, chi vuole rappresentare e con quali obiettivi. L’alternativa è il tramonto di quel sole novecentesco, che forse dalle tessere è scomparso da decenni

Enrico Mentana