DI Marino Bartoletti
Durante le (faticose) Olimpiadi di Mosca del 1980, mi ritagliai un rarissimo spazio di libertà accettando l’invito che mi era stato fatto di andare a visitare il Museo della Cosmonautica, che in realtà sarebbe stato inaugurato ufficialmente solo qualche mese dopo: e cioè il 12 aprile del 1981, per celebrare i vent’anni della conquista dello spazio da parte di Jury Gagarin Ora quei vent’anni sono diventati sessanta. Lo zaino della vita si è un po’ appesantito. Eppure a parlare di Gagarin (che è seppellito sotto le mura del Cremlino come tutti gli eroi del suo Paese) mi suscita ancora emozione. A ripensare oggi a quell’impresa confrontandola con quello che poi è accaduto nello spazio, si ha quasi la sensazione del lancio di una fionda verso il cielo. Eppure tutto il mondo venne percorso da un fremito: e figuriamoci il “mondo” di noi bambini. I libri di Jules Verne e di tanti altri scrittori di quella che sembrava fantascienza, stavano diventando realtà. I più audaci pensavano al lontanissimo 2000 come a Colonne d’Ercole oltre le quali sarebbe potuto accadere di tutto (e in buona parte – purtroppo – è stato così). Il volo – rischiosissimo e trionfale – di Gagarin scatenò un autentico (e anche “ideologico”) derby spaziale con gli Stati Uniti, mortificatissimi all’idea di essere arrivati “secondi” in un campo che pensavano di poter dominare. John Kennedy, eletto presidente da meno di un mese, sentenziò: “Vi giuro che entro questa decennio saremmo noi ad arrivare sulla luna”. E così fu. Diventa quasi ozioso cercare di capire quanto e se sia stato giusto disperdere tante energie per il “progresso”. Il “bimbo Marino” non ha dubbi: “nonno Marino” qualcuno in più. Ma non è questo il senso del mio post. Ricordo che nella visita a quel bellissimo museo (io che pure avevo già visitato Cape Canaveral ) quasi mi commossi. Mi fece tanta tenerezza vedere lo “Sputnik” (che allora era… un satellite, non un vaccino): era poco più di una grande palla con le antenne. Eppure tutto cominciò da lì: anche se noi bimbi pensavamo fosse un razzo alto come un grattacielo. Il suo nome significava “compagno di viaggio”. Evidentemente era destinato a conservare il suo significato Gagarin venne scelto, non solo per il suo indubbio talento di giovane aviatore, ma anche perché era un vero figlio del popolo (e la cosa, all’epoca, era perfetta per la propaganda): padre falegname, mamma contadina in un kolchoz di Smolensk (curiosamente a un passo da dov’era nato Isaac Asimov che avrebbe raccontato lo “spazio” in tutte le declinazioni possibili). Se ne andò prematuramente a 34 anni durante un apparentemente innocuo volo di addestramento su un nuovo Mig. E pensare che il Partito gli aveva impedito di compiere altre missioni spaziali per poterlo preservare come prezioso testimonial della sua impresa. A maggior ragione dopo che era stato designato come riserva del volo Soyuz 1 dove il suo fraterno amico Vladimir Komarov (che lui aveva “battuto” per effettuare lo storico volo del ’61) perse la vita nel rientro a terra. L’immagine che allego al post la conservo ancora da quel lontano 1980. La didascalia recita più o meno: “Gloria al figlio del Partito”. Quando fu in orbita, Gagarin disse: “Quassù non c’è nessun Dio”. Ora che è ancora più in alto sarebbe interessante sapere se ha cambiato idea. Tanti bambini, in quel decennio vennero chiamati Jury in suo onore. Uno, a me – a tutti!- carissimo, vinse tanti anni dopo un’Olimpiade meravigliosa in maglia azzurra. Semplicemente volando fra due anelli. Come se fosse in cielo.