DI ALBERTO BENZONI
Circa due mesi fa, la venticinquennale stagione politica di Netanyahu sembrava avviata alla sua conclusione. Con la formazione di una specie di un governo di unità nazionale: dai nazionalisti “laici” sino alla sinistra laburista, con l’astensione di una formazione araba.
Oggi, questo governo si è formato.
In mezzo due mesi terribili: bombardamenti su Gaza, missili su Tel Aviv, scontri violenti tra israeliani e arabi, attacchi alle sinagoghe e alle moschee. Insomma, un’esplosione di irrazionalità che, in conformità con quanto era accaduto nel passato, avrebbe dovuto riportare l’orologio all’indietro, pregiudicando magari per sempre i rapporti tra i due popoli.
E invece no. E invece si torna al punto di partenza; ma, questa volta, per ripartire verso una nuova stagione politica in Israele e, in prospettiva, in tutto il Medio oriente.
Ci siamo accorti, durante queste poche settimane, che le cose erano cambiate. E al di là di ogni nostra aspettativa. O, per dirla in altro modo, che la scena, fino a qualche tempo fa occupata da un solo e onnipotente protagonista – l’Israele di Bibi – era tornata ad affollarsi. Di protagonisti tornati in campo ma con un aggiornamento dei loro orientamenti precedenti: in primis gli Stati Uniti ma anche l’opinione pubblica internazionale, l’Egitto e (ebbene sì) Hamas. E di uno nuovamente visibile: il popolo palestinese.
GLI STATI UNITI DI BIDEN
L’appoggio degli Stati Uniti a Israele in quanto stato nasce nel 1947. E ci sarà sempre. Ma i tifosi, dell’una o dell’altra parte, sbagliano se pensano che questo appoggio si sia automaticamente esteso ai suoi governi. Così è stato con Trump. Ma non prima; né, come tutto lascia pensare, dopo. E non per capriccio; ma perché questo rapporto deve essere compatibile con la difesa degli interessi americani nell’area mediorientale (come dice, la già citata recente nota del Dipartimento di stato: “non daremo ai nostri partner nessun assegno in bianco per svolgere politiche contrarie ai nostri interessi”). In questa prospettiva opereranno, in forme e obbiettivi diversi, l’America di Nixon e quella di Carter, quella di Reagan e, soprattutto, quella di Bush padre; per finire con Clinton.
Dal 2000 o più esattamente dal settembre dal 2001 in poi, tutto cambia. Perché il Medio Oriente, luogo complesso quant’altri mai, diviene il luogo deputato dello scontro tra Buoni e Cattivi. I primi, impersonati dall’Israele di Netanyahu. I secondi dall’Iraq di Saddam, dai talebani, dagli iraniani, dai siriani di Assad e via discorrendo. Tutta roba nota e arcinota. Come il fatto che le relative crociate sono rovinosamente fallite e che oggi gli Stati Uniti sono praticamente assenti in un’area in cui sono presenti tutti gli altri.
Oggi l’America ritorna, E con un presidente terra terra, empatico, modesto ma realista nei suoi incontestabili obbiettivi ; “sicurezza per Israele, appoggio alle legittime aspirazioni dei palestinesi”. Obbiettivi che, a differenza di quelli, assai più ambiziosi, di Obama, destinati a un umiliante fallimento, hanno ottime possibilità di realizzarsi. E, con ricadute positive in tutta l’area; a partire dalla Siria e dal Libano.
L’OPINONE PUBBLICA INTERNAZIONALE
In Italia, forse, non ce ne siamo accorti. Ma si sa l’Italia è sempre l’ultima ad accorgersi di quello che accade nel mondo. Mentre, proprio nel mondo dell’ebraismo “liberal e democratico”, maggioritario tra gli americani e in molti paesi europei, il cambiamento è netto. E non ha niente a che fare con considerazioni ideologiche o con il sostegno a questa o quella Causa. Ma con due fatti concreti. Il primo è che l’esperienza di Trump ha minato alla base la convinzione che gli interessi di Israele si identificassero con quelli di Netanyahu; il secondo, rovescio della medaglia, che il volto dei palestinesi non fosse quello di al Fatah o di Hamas ma delle innocenti vittime dei bombardamenti o delle angherie della polizia o dei coloni. Tutto ciò rappresentato, nelle prime pagine dei grandi giornali, da immagini che sarà difficile cancellare.
EGITTO
In queste settimane, l’Egitto di al Sisi sta assumendo un ruolo assai importante durante e soprattutto all’indomani della guerra degli 11 giorni. Proposte di mediazione. Impegno per la ricostruzione di Gaza. Contatti stretti durante e dopo la crisi, sia con la dirigenza di Hamas sia con il Mossad. Visite di una delegazione di alto livello a Gaza. Questo in preparazione di un incontro ai massimi livelli, destinato a fissare un accordo, internazionalmente garantito, sulla linea dello scambio tra una tregua di durata potenzialmente illimitata tra Israele e Hamas in cambio di un consistente flusso di aiuti nella Striscia.
Una proposta che, allo stato, non è forse ancora in grado di tradursi in un accordo formale e relative strette di mano di fronte alle tv di tutto il mondo. Ma che rimarrà sul tappeto a rassicurare chi di dovere sulle intenzioni dell’altro.
Basterà allora ricordare qui – ed è una buona notizia – che al Sisi si muove a difesa degli interessi dell’Egitto. Perché riporta il suo paese al centro del gioco. E, perché difendere concretamente, all’esterno, gli interessi dell’Islam sunnita, Fratelli musulmani compresi, contrasta la pretesa turca di assumere questo ruolo.
(E’, per inciso, nella stessa chiave che vanno interpretati i riavvicinamenti in atto tra la Siria di Assad e le monarchie del Golfo).
HAMAS
Per gli israeliani e, soprattutto, a uso e consumo degli occidentali, che Hamas vien rappresentata come l’Uomo nero, volto giorno e notte alla distruzione di Israele. E guidata da uomini con barba lunga e sguardo sfuggente chiusi in luoghi segreti e inaccessibili.
Oggi, invece, ci troviamo di fronte a un dirigente politico, Sinjar. Ben conosciuto dagli israeliani perché liberato qualche tempo fa dopo aver trascorso 23 anni nelle loro prigioni, luogo ideale per conoscersi reciprocamente e a vantaggio reciproco, conosciuto da “chi di dovere”. Eccolo, allora, rilassato e spiritoso, ad illustrare a una folla di giornalisti, la posizione di Hamas: “non abbiamo voluto né vogliamo muovere guerra a Israele. Siamo intervenuti, previo avvertimento, solo perché c’era bisogno di reagire a quanto stava avvenendo a Gerusalemme”. E, oggi (vedi la voce Egitto) siamo a disposti a porre fine al conflitto, pur di porre fine alle sofferenze di Gaza.
Una falsa promessa? Proprio no. Semmai la presa d’atto del fatto che non ti puoi proprio permettere nuovi conflitti, quando sei responsabile della vita di milioni di persone
I PALESTINESI
In un sondaggio del 2017 il 73% degli arabi di Israele si dichiarava israeliano: il 62 % fiero di esserlo Mentre i palestinesi della Cisgiordania si dichiaravano più interessati al miglioramento delle loro condizioni di esistenza, questo possibile e necessario, ritenendo improbabile la nascita di uno stato palestinesi e non credibili quelli che l’avrebbero governato.
Oggi queste percentuali sarebbero molto più basse, almeno in Israele. A tutti gli uomini di buona volontà il compito di farle risalire. Nell’interesse di Israele e del suo popolo. Come di quello palestinese.