DI FILIPPO ROSSI
Ha voluto essere sepolto insieme a una copia della “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni, nell’edizione con prefazione di Leonardo Sciascia. Uno dei primi testi che documenta vado di errori giudiziari in Italia.
Il 17 giugno 1983 Roma si svegliò con una notizia shock: il giornalista Enzo Tortora, amato e popolare conduttore del programma Portobello, fu arrestato e portato in manette a Regina Coeli, fatto sfilare davanti a cittadini increduli, curiosi, fotografi, giornalisti, operatori tv come fosse un capo mafia latitante da anni. Esposto alla pubblica gogna.
L’accusa era di quelle pesanti: traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico, con lui in carcere finirono altre 855 persone. Per Tortora fu l’inizio di una discesa all’inferno da cui, almeno in vita, non uscì più.
Lo massacrarono. Lo linciarono. Tutti, dalle piazze ai bar, dalla carta stampata alle trasmissioni tv. Lo condannarono prima ancora che mettesse piede in un’aula di tribunale, senza conoscere nulla della vicenda, perché, la giustificazione degli inquisitori anni ‘80, “non si ammanetta qualcuno, nel cuore della notte, se non vi sono veri presupposti”. Una lapidazione.
Unica voce fuori dal coro fu quella di Enzo Biagi, che dalle pagine di Repubblica si espresse contro gli aguzzini del conduttore di Portobello con uno storico editoriale intitolato “E se Tortora fosse innocente?”. Il giornalista si chiedeva, infatti, perché ci fosse stata una tale corsa al lancio del letame a fronte di un impianto accusatorio tanto lacunoso e fragile, decisamente carente di riscontri. Biagi si chiese anche quanto fossero attendibili le dichiarazioni di alcuni pentiti che accusavano Tortora, il cui nome era stato trovato in un’agendina appartenente a un componente del clan (poi il nome scritto lì risultò essere Tortona e non Tortora).
Tre mesi dopo, il presentatore fu condannato a dieci anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di stupefacenti. Solo un anno dopo la sentenza di ribaltata e Enzo Tortora venne assolto con formula piena.
Non aveva commesso il fatto, era innocente ma lo avevano crocifisso come fosse il peggiore dei delinquenti.
Nel 1987 tornò alla conduzione di Portobello e, visibilmente emozionato, nella prima puntata dopo il suo calvario, pronuncio questo storico discorso: “Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. E questo grazie a questa cara, buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L’ho detto, e un’altra cosa aggiungo: io sono qui, e lo sono anche, per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi; sarò qui, resterò qui, anche per loro”.
Personaggio di grande cultura, elegante, signore d’altri tempi, Tortora non superò mai davvero il trauma di quanto era stato costretto a subire. Si ammalò di cancro e morì a Milano nel 1988. Al suo funerale parteciparono amici e colleghi tra i quali Marco Pannella, Enzo Biagi, Piero Angela.
La sua storia resta una delle pagine più tristi della giustizia italiana.