Di LIDANO GRASSUCCI
La notizia ci coglie di sorpresa: “è morto Antonio Pennacchi, un infarto”. É morto a casa mentre telefonava. Ora diranno che… la retorica, che lui odiava, si impadronirà del suo ricordo e gli farà torto. Non gli stavo simpatico, non mi stava simpatico e certo non si cambia nel saluto.
Ma la grandezza va riconosciuta: lui ha dato a questa terra di niente la sua letteratura. Ha creato una letteratura, una epopea, una idea di un popolo. Ha raccontato una storia che senza di lui non sarebbe diventata neanche una storiella.
Canale Mussolini, il primo, quello dello Strega, è un romanzo a tutto tondo, è una identità della gente cispadana che altrimenti sarebbe stata uno starnuto, un incidente, una serie di cognomi del nord in una terra a sud di Roma. Lui ha fatto un affresco, come Olmi nel cinema con l’Albero degli zoccoli, un pezzo che sarebbe stato dentro il Novecento di Bertolucci.
Mi schiacciò, lo confesso alle mie contraddizioni. Mi mandò una parte nel romanzo in cui mi descriveva (Chiamandomi Lidano Sensucci) come nazionalista setino puro e duro, chiedendomi parere. Gli risposi che ero onorato, andava tutto bene, ma c’era un particolare da considerare: mia madre era di Piazzola sul Brenta e faceva di cognome Bergamin. Mi telefonò a stretto giro: è impossibile, le venete non sposavano i marocchini. Gli risposi: mi dispiace ma io sono la prova vivente che non era così, ma anche la Ciana aveva sposato Renio ed era nato Pietro…. Gli raccontai la storia di Filippo e Maria, lui faceva di cognome Giorgi e lei Macor, lui setino lei friulana, e sono ancora insieme.
Lui stette, incassò e dopo qualche giorno mi mandò il passo del romanzo in cui Lidano Sensucci era stato rapito alla madre “bianca” dai sioux setini, nelle vesti di mio nonno Lidano, e allevato all’ipernazionalismo lepino. Il che era verissimo, certificato, tanto che mamma ha evitato accuratamente la medesima mia sorte a mia sorella che non si chiama Loretta, Loreduccia, Filomena, ma con un italianissimo Alessandra (fosse stato per mamma avrebbe anche cambiato il cognome).
Così, mio malgrado, feci da sponda al romanzo madre della Cispadania, facendo il nemico, ma con faccia altrettanto cispadana. Come in Alto Adige dove i cognomi italiani li hanno quelli di lingua tedesca e quelli tedeschi quelli che parlano come Dante.
Pennacchi ha inventato una lingua, quello strisciante romanesco di periferia che usava associato a smorfie del viso che lo facevano esplodere davanti a luoghi comuni, a cose troppo sentite. Non lascia eredi, perché i campioni giocano da soli, era anarchico e quindi non sapeva far squadra.
Non condividevo nulla di lui, soprattutto la “passione” per quella sua intuizione: il fasciocomunismo che univa il peggio del novecento, le tragedia totalitarie del ‘900, da socialista lo trovavo, lo trovo, abominevole.
Scrivo forte le cose contro perché a lui facevano schifo le cose a favore. Una volta in un confronto al teatro D’Annunzio (allora era aperto) non sopportava più la mia difesa della gente di qui davanti a quella che lui chiamava “bonifica” e io “malefica”, lui città nuove, io città brutte. Mi apostrofò come “sezzese”, gli risposi “la capisco e la condivido, non solo lo sono, ma me ne vanto!”.
Era non facile, chi scriverà altrimenti gli farà torto, chi scriverà lisciandolo gli farà torto.
Antonio Pennacchi era antipaticamente indispensabile, nulla condividevo di lui, ma se questa terra non è un buco nero tra Roma e Napoli lo si deve a lui.
E come si faceva una volta in piazza, mi tolgo il cappello
Fattoalatina