LA STORIA DI ZIA NORA. 60 ANNI FA È COME OGGI

DI IVANA FABRIS

Mia zia Nora aveva 5 figli. E una vita di botte, di violenze inaudite, di torture atroci, di fame, di freddo, di miseria assoluta, di stenti, di patimenti. Di orrore. Una vita fatta di sedie fracassate sulla sua schiena, anche quando era incinta, di bottiglioni pieni di vino rotti sulla sua testa. Di tubercolosi e di finestre senza vetri. Di stupri reiterati, di bambini concepiti nel dolore fisico, nell’umiliazione, nella sottomissione. Di fumi dell’alcol, utili per alzare il pugno sulla sua faccia con più feroce determinazione, di compaesani che riempivano il bicchiere dell’orco per istigarlo a picchiarla di più, una volta tornato a casa dall’osteria. Mangiava quando riusciva, dormiva se poteva. Nelle camere gelide del Friuli degli anni ’60, giusto un cartone alle finestre della stamberga che chiamavano casa. In cortile tutto era fango ghiacciato per l’acqua di un paese chiamato Bagnarola perché questa sgorga appena sotto la crosta. Le mani consumate, illividite dal lavare la biancheria nella roggia fuori casa qualunque fosse la temperatura, dallo spazzolare in ginocchio un pavimento consunto e imbrattato di vomito e di ogni genere di sostanza che vi veniva sversata nei momenti dell’odio quotidiano. In cortile c’erano tutti quando mia madre e noi, arrivavamo. Tutti in fila, lei e i suoi bambini, allineati dal più piccolo al più grande. I piedi scalzi nel terreno gelido e ruvido di fango ghiacciato e di pezzi di acqua sgorgati e subito congelati, nella notte di novembre, dalla pompa che buttava senza mai fermarsi sopra un vascone di cemento ormai brunito dalle intemperie. Quei novembre in cui la temperatura era già di molto sotto lo zero. Il grembiule sdrucito, lo sguardo desideroso di una parola gentile, di un abbraccio, di qualche pezzo da 1000 lire passato di nascosto, di una borsa di spesa dove trovare pane, pasta, qualche pezzo di formaggio o di carne, il sale. Sorridente ci guardava e ci diceva che era felice di vederci. Lei. Lei era felice in quel momento e i suoi occhi ce lo dicevano. Ma i suoi bambini no, non lo erano. Gli occhi fissi a terra o assenti e inebetiti, la testa china, in un silenzio fatto di terrore. “Nora, Nora vieni via, prendi i bambini e vieni via con noi”. Niente. Niente da fare. Allevata all’obbedienza cieca al marito padrone, diceva che lei non poteva andarsene, che il suo posto era lì, lì insieme a quello che la massacrava un giorno dopo l’altro, che mentre era ubriaco fradicio, sporco e puzzolente, esigeva i doveri coniugali, che l’ha picchiata e picchiata ogni giorno della sua vita e che quando non ce la faceva più a picchiare, si faceva sostituire dalla propria sorella. E se era incinta, meglio. Poteva essere una bocca in meno da sfamare. Quando ripartivamo, il furto. La rapina di quei pochi soldi, del cibo sottratto. E ancora botte, botte, botte. I calci, i pugni, i lividi, le costole rotte, i denti che le restavano malgrado i patimenti della miseria, rotti dai cazzotti. E il sangue. Dal naso, dal labbro, dalla testa. Fino al giorno in cui un fiotto rosso le ha riempito la bocca. È morta così, mia zia. Nello stanzone dell’ospedale di Udine dov’è arrivata ridotta allo stato di uno spettro. Aveva poco più di 40 anni. A tenerle le mani, a sentirla raccomandarsi di prendersi cura dei suoi bambini, solo una suora mossa a pietà da quel corpo martoriato. La stessa che si premurò di proteggerla dall’ultimo sfregio di quell’essere impregnato di violenza che chiamava marito. Il suo corpo non era ancora freddo ma lui era già sulla porta della stanza per sfilarle quella lamina sottile, consumata dal lavoro e da fatiche inimmaginabili, che era ormai la sua fede nuziale. E una catenina con un crocifisso cui lei tante volte aveva rivolto le sue preghiere perché qualcuno potesse proteggere lei e i suoi bambini. Invano. La seppellirono in un giorno di maggio. Un mese davvero ingiusto per morire. Si era finalmente liberato di lei. Lo disse tronfio, a voce alta dinnanzi a chi la piangeva mentre calavano la sua bara nella fossa. Dovettero fermare mio padre dal fargli un millesimo di quello che lui aveva fatto a lei. I suoi bambini furono istituzionalizzati. Improvvisamente i servizi sociali si erano accorti che esistevano. Non c’erano quando la loro madre soccombeva sotto ai colpi del marito e non c’erano mai ogni volta che denunciavamo. No, allora non serviva. Ma sono arrivati come avvoltoi giusto il tempo di far entrare i bambini nel sistema, per ingrassare le già pingui casse dell’ENAOLI, ente gestito dal clero che veniva foraggiato dallo Stato. A quel punto, sì, arrivarono subito. Vennero a prenderli e li separarono. Furono sparsi in vari collegi di tutto il Friuli. Ognuno con la sua storia, il suo dolore, il lutto che nessuno ha contenuto, che nessuno ha abbracciato. Con un orrore in più da vivere perché tale è stata l’esperienza del collegio. Ingiustizie, sfruttamento lavorativo, iniquità, botte. Altre cinque vite spezzate. Di cinque si son riscattati solo in due e una di loro, comunque, a carissimo prezzo. Sono cresciuta vedendo la loro sofferenza e quella di mia madre insieme alla fatica. Nel subire la perdita e nel cercare di seguire i bambini di sua sorella ormai orfani. In simili situazioni, cresci con un dolore dentro, sordo, muto ma tu sai che c’è. Guardavo la mia vita e pensavo ai miei cugini sentendomi fortunata e colpevole insieme. Io, figlia di operai, di condizioni assolutamente modeste, mi sentivo ricca, ricchissima. Per la mia casa piccola ma pulita e profumata di cera, ordinata e dignitosa, per il bagno che potevo usare senza dover andare in cortile a farla in un buco nero dove avrei temuto di precipitare. Per avere una famiglia. E una madre viva e al sicuro. Anno dopo anno ho assistito e vissuto le tragedie che sono scaturite dalle vite dei miei cugini, soffrendole. Dalla mia avevo però una speranza perché, figlia della mia generazione, sono cresciuta convinta che la violenza sulle donne non sarebbe più stata così diffusa come quella che ha ucciso mia zia. Beh, mi sbagliavo. Questa settimana, ancora una volta, otto donne sono state assassinate dalla stessa furia cieca, dallo stesso orco di sempre. Quello che non accetta che una donna dica basta, lo stesso che schiaccia una donna che si prostra ai suoi piedi. Motivazioni, le chiamano i media e gli avvocati. Io li chiamo alibi. Solo alibi, perché alla base di tutto c’è solo la ferocia nata dall’odio. Nell’immaginario di questi uomini, un odio nutrito da un seno malvagio, partorito da un utero che da culla diventa l’antro di una caverna dove si divorano bambini. Un odio vecchio come il mondo che nel terzo millennio ha molteplici declinazioni. Alcune sottili e sofisticate, altre più dirette e arcaiche. Si compiono omicidi efferati, condannando anche i figli di queste donne ad un’esistenza di dolore continuo o si ammazzano lasciandole in vita, perché si assassinano i loro figli o perché li si violenta psicologicamente per distruggere la madre o si torturano nei tribunali. Poco cambia. Il risultato è sempre lo stesso che ha vissuto mia zia Nora insieme ai suoi bambini, quasi 60 anni fa.