DI ALBERTO BENZONI
“Nuntio vobis gaudium magnum”. Così l’annuncio “urbi et orbi” dell’elezione di un nuovo pontefice. Così, fatte le debite proporzioni, la presentazione a Roma del nuovo trattato tra Francia e Italia.
E’ l’esaltazione di quel modello di cooperazione rafforzata, prevista nel dispositivo di Maastricht ma, almeno a memoria di chi scrive, mai formalizzata e sviluppata in tutte le possibili direzioni (per tacere della presenza, cadenzata nel tempo, di un rappresentante dell’altro governo alle riunioni dei consigli dei ministri) come in questo caso.
Un’esaltazione retorica, certo; ma anche frutto di un calcolo politico preciso. Si vuole, insomma, diffondere un messaggio. Far sapere agli interessati, in Europa e altrove, che si sta aprendo una fase nuova nella costruzione di un’Europa, insieme economica e politica.
Ora, aprire una fase nuova implica necessariamente un giudizio critico sul funzionamento di quello che potremmo chiamare sinteticamente, “sistema di Maastricht”: e, insieme, su di un sistema di difesa incentrato sulla Nato. Giudizio espresso da Macron in diverse circostanze; salvo a scontrarsi regolarmente con un vero e proprio muro di gomma. Né hanno sortito miglior esito le varie iniziative assunte autonomamente dalla Francia in questi ultimi anni: dal tentativo appena appena abbozzato di stabilire un rapporto personale con Trump alle aperture “mediatrici” nei confronti dell’Iran e della Russia; dall’avventurismo militare manifestato in Libia e nel Sahel sino al tentativo, meritorio ma votato in partenza all’insuccesso, di imporre al Libano la formazione di un governo tecnico in grado di varare le necessarie riforme.
Al termine di questo ciclo di insuccessi l’aut/aut: o rientrare nei ranghi – cosa per un sovranista a 18 carati, impensabile – o andare avanti; ma con le necessarie alleanze.
In questo quadro, l’Italia è la prima scelta. E non solo perché non se ne vedono altre: lontana e sempre più ostile la Gran Bretagna; la Germania, ripiegata su se stessa ma da acquisire in un secondo momento; la Spagna troppo esposta politicamente; dei paesi dell’Est, meglio non parlare. Ma anche perché la Francia è anch’essa la prima scelta nel nuovo attivismo internazionale dell’Italia di Draghi.
Un’Italia che vede nell’alleanza con Parigi un’occasione unica per liberarsi dalle subalternità che hanno sinora paralizzato la sua iniziativa internazionale: quella rispetto agli Stati Uniti e alle loro direttive, oggi diventate vaghe e contraddittorie; quella rispetto alla Germania, custode di vincoli per molti aspetti improponibili; e, infine, ebbene sì, rispetto alla stessa Francia, predatrice dei nostri “asset” industriali e, infine, causa prima del grande disordine sul fronte Sud del Mediterraneo e nel Sahel.
Alle radici dell’accordo c’è però qualcosa di più. La convinzione che sia l’europeismo senza se e senza, sia la politica dei veti e delle contrapposizioni radicali, non portano da nessuna parte. E che l’unica via da percorrere sia allora la cooperazione rafforzata, leggi la convergenza di più stati intorno a scelte strategiche comuni. In un processo, attenzione, di cui l’intesa tra Parigi e Roma è – o dovrebbe essere – solo la prima tappa.
Qui e oggi, siamo in grado di individuarne almeno tre. Due, più o meno scontate. La terza, invece, tutta da costruire.
La prima, e più ovvia, è quella di costruire un progetto di sviluppo di tipo keynesiano, basato sul ruolo centrale dell’investimento pubblico che consenta di superare concretamente i vincoli di Maastricht; progetto che potrebbe coinvolgere anche la stessa Germania, nel quadro di una lotta alle disuguaglianze.
La seconda è quella di contrastare apertamente ( a partire dalla nomina di un nuovo segretario generale della Nato al posto del calamitoso Stoltenberg) il ritorno alla guerra fredda in Europa. Ritorno che è, insieme, causa e conseguenza, dell’assenza dell’Europa dalla scena internazionale.
E’ infine, interesse comune dei due paesi riportare al centro dell’attenzione europea l’area mediterranea e mediorientale. Ma questo è possibile solo in presenza di progetti e di iniziative comuni. In questo caso, però, tutti da costruire.
In questa prospettiva l’Italia non ha particolari conti da fare con il proprio passato. Perché dal dopoguerra in poi – che si trattasse di Fanfani o di Moro, di Craxi o di Berlusconi – la sua linea nell’area è sempre stata la stessa: apertura, dialogo, sostegno attivo, mediazione rifiuto di qualsiasi logica di contrapposizione. E tutto questo in base e in nome della libertà d’azione di un paese libero dai condizionamenti della propria eredità coloniale.
Un’eredità coloniale che la Francia intende difendere ad ogni costo; uno scopo spesso difficile da conciliare con la necessità di aggiornarla. Ma anche uno scopo che ha portato Parigi ad agire in aperto contrasto con gli interessi vitali del nostro paese.
Sarà allora necessario un processo di revisione. Già avviato in Libia; anche se con prospettive di successo limitate. Ma che sarà necessario estendere e arricchire sul terreno dei diritti umani (il caso Regeni brucia ancora) e di una politica migratoria attiva. Ricordando sempre che gli interessi comuni si possono anche costruire su politiche comuni.