HUB E DAJE NELLA LEZIONE DI PASOLINI E LA CITTA’ OMOLOGATA

DI LIDANO GRASSUCCI

 

 

ANTEFATTO:

mi sono “meravigliato” dell’abuso di inglesismi che fanno i negozi del centro di Latina, in particolare di un nuovo esercizio che si è autodefinito “hub” (cosa abbia a che fare un hub con la vendita di abiti non mi è dato sapere). Come mi meravigliai di un terribile romanesco da Bombolo “Daje Latina”, utilizzato nella campagna elettorale di Coletta (tra l’altro usato, e non con fortuna, dal sindaco di Roma Marino).

Mi sono piovute critiche a iosa, e l’accusa di “provincialismo” e di “setinità” è stata conseguente. Fermo restando che io “sono” provinciale, io “sono setino” ma proprio per questo sono internazionalista e credo nelle contaminazioni perché ho qualcosa da farmi contaminare, la mia cultura, e con la stessa spero di contaminare, in modo da cambiare le cose di questo mondo.

Infatti vado al bar e non alla mescita, ma se debbo comperami un cappotto non vado in un “hub” ma in un negozio di abbigliamento, se debbo ordinare un cognac non chiedo arzente, ma se debbo dire “buon Natale” non dico “Merry Christmas” , se debbo fare la terza dose del vaccino “faccio il richiamo in un centro vaccinale” e non un “un booster in un hub”, il virus si diffonde non per “cluster” ma a “grappoli”

La globalizzazione ha bisogno di diverse visioni, non di imitazioni. Poi se a Roma i turisti del mondo giustificano l’inglese, a Latina che al massimo veniamo a comperare da Doganella, mi pare proprio fuori luogo. Questo nulla toglie alla iniziativa imprenditoriale, alla fighezza dei prodotti, ma sarebbe stato bellissimo “Negozio di abbigliamento Susi, già Porfiri”.

Del resto non mi scandalizzo se in ogni teatro del mondo al successo di pubblico per ogni cantante e attore si grida “bravo” in italiano, come uso la parola francese charme per dire fascino. Ci mischiamo ma se abbiamo l’orgoglio di essere noi stessi.

VIAGGIO DI RESISTENZA ALLA BANALITA’

Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà

Pier Paolo Pasolini

Dante scrisse nel dialetto di Firenze una storia di fiorentini, una roba tutta sua con un gioco di antipatici e simpatici. Tacciarono quella lingua come “volgare”, del popolo basso. Loro, i critici, erano “internazionali”, gente che girava, e parlavano in latino. Quel “volgare” di Dante in volgare scrisse la più grande opera letteraria del mondo, una Commedia divina. Già, per essere divina era così fiorentina.

Scrivo in italiano, mi confronto col mondo in italiano, penso nel mio dialetto che uso con i miei affetti e per questo sono cittadino del mondo. Se cancellassi la mia lingua, il mio dialetto sarei un vuoto che subisce il mondo. Pier Paolo Pasolini pensava che la massificazione si combatte con l’identità delle lingue

“Sint se bon odour q’al sofla dal nustri paìs…
Odour di fen e di erbis bagnadis;
odour di fogolars;
odour ch’i sintivi di fantassìn tornant dal camp”.

Senti che buon odore che soffia dal nostro paese;
odore di fieno e di erbe bagnate,
odore di focolari,
odore che io sentivo da ragazzo tornando dal campo

La massificazione nega le differenze per farci identici e mai noi stessi. Essere noi stessi con orgoglio è l’unico modo per essere cittadini del mondo, altrimenti siamo sudditi di un altro mondo, alieni in terra nostra.

Il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane”.

Pier Paolo Pasolini

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