DI ALBERTO BENZONI
Ad annunciare, insieme, l’invasione russa e il colpo di stato interno, e con annesse date (fine gennaio e primi di dicembre…), è stato il governo ucraino. A confermare l’annuncio, la Cia; nota, insieme, per la sua incapacità di prevedere ciò che sarebbe realmente accaduto e per la sua propensione a raccontare, su richiesta, quello che non stava né in cielo né in terra.
Uno scenario, apparentemente, preso sul serio da tutti (dagli Stati Uniti, all’Ue, sino al G7). Ma che potrebbe essere ritenuto credibile sola a condizione di considerare il Nemico di turno non solo cattivo ma anche affetto da demenza galoppante. Mentre è evidente a tutti, e quindi anche a Putin, che l’invasione dell’Ucraina sarebbe per Mosca e per il mondo un atto di pura follia.
Aggiungiamo, però, da subito, che questi argomenti appartengono, tutti interi, alla visione del mondo in chiave retorica e moralistica propria del partito democratico. Una retorica che Biden condivide in pieno. Accompagnandola, però, con un un’altrettanto radicale opposizione all’interventismo militare; e alle guerre in generale.
Una posizione, per inciso, manifestata in più circostanze; e, in particolare, nel sostenere, con grande coraggio intellettuale e morale, l’impossibilità di continuare in Afghanistan una guerra a sostegno di un regime che aveva già abbandonato il campo.
E, allora, niente invio di armi e di consiglieri militari a Kiev. E, soprattutto, nessuna risposta militare in caso di invasione. Al loro posto la minaccia di pesantissime sanzioni economiche. E l’apertura di un confronto a tutto campo con Mosca, sulla base di una posizione comune del campo occidentale. Confronto che la controparte russa si è dichiarata immediatamente disposta ad aprire.
E’ bastato questo a far scomparire dall’orizzonte lo scenario di una invasione prossima ventura; scenario cui, in realtà, non aveva creduto nessuno, a partire da chi l’aveva dato per certo.
Al suo posto non ancora una trattativa formale. Ma, comunque, una consultazione di tutti con tutti, dove le due parti hanno avuto la possibilità di formulare pubblicamente le proprie “linee rosse” e, quindi, almeno implicitamente, di individuare i contenuti di un possibile compromesso.
Su questa base, tramontata la fantasmagoria dei carri armati a Kiev, è possibile costruire gradualmente un’intesa. Che, da una parte non comporti, come vorrebbero i russi, la rimessa in discussione, dell’integrazione dei paesi dell’Est, Ucraina compresa, nel campo occidentale; e, dall’altra, non dia luogo, come vorrebbero polacchi e ucraini, assieme ai loro referenti americani, all’accerchiamento della Russia da parte di un blocco ostile e super armato. Aggiungendo, per inciso, che le ossessioni russe a questo riguardo dovrebbero essere perfettamente comprensibili, per non dire condivise, da parte dell’America; una superpotenza sull’orlo di una possibile guerra atomica in reazione all’installazione di missili a Cuba.
Il cammino per un’intesa – a partire da quella sulla riduzione degli armamenti in Europa – non sarà breve. Anche perché, a bloccarlo sin dall’inizio c’è soltanto una visione, propriamente paranoica dell’Altro.
Si può pensare tutto il male possibile di Putin. Ma da qui ritenere la Russia di oggi più pericolosa e più aggressiva dell’Unione Sovietica di Breznev ce ne corre. E, ancora, vedere qualsiasi negoziato e/o rapporto economico con Mosca come una trappola o una resa significa dimenticare che gli accordi di Helsinki, allora considerati come porta aperta alla “finlandizzazione dell’Europa“, avviarono, in realtà, un processo che portò alla dissoluzione pacifica del campo socialista.
A ben vedere, la tesi della Russia come nemico principale ha dalla sua soltanto la forza di coloro che la sostengono: paesi dell’Est, lobby atlantiste, complesso industriale/militare Usa e retaggi persistenti della psicologia della guerra fredda.
Ma questa forza viene dal passato. Da una seri di strutture portate automaticamente: per dovere d’ufficio; per ostilità consolidate nel tempo; o per ragioni, diciamo così, corporative, a vedere Mosca con ostilità mista a disprezzo (al punto di considerarla, nell’organigramma della Cia, un paese asiatico). Guardando in prospettiva alla realtà delle cose, il quadro diventa, invece, radicalmente diverso.
E per tre fondamentali ragioni.
La prima, che era ben chiara a personaggi, per altro verso radicalmente opposti, come Nixon e Obama, è che l’America non può permettersi troppi nemici. Nixon, in questo più coraggioso del suo successore, andò a Pechino, e ai tempi tragici della rivoluzione culturale, per aprire un dialogo, poi esteso anche a Mosca, che portò, nel corso del tempo, alla fine della guerra fredda con la vittoria dell’occidente. Obama teorizzò lucidamente che, per vincere il confronto, tutto economico, con la Cina, occorreva, per prima cosa, chiudere tutte le partite aperte, dall’Iran, a Cuba, dalla questione palestinese al “reset” dei rapporti con Mosca. Salvo a fallire, senza combattere, su tutti i fronti; anche per l’incapacità, tipica dei grandi intellettuali, di far valere la forza delle sue idee.
La seconda, e di gran lunga più importante, ha a che fare con un sistema internazionale del tutto nuovo. Un sistema in cui la Cina è in grado da sola di reggere il confronto con gli Stati Uniti sul piano economico; così come la Russia è in grado di reggerlo, attraverso una adeguata capacità di deterrenza, è in grado di reggerlo sul piano militare. In questo quadro la russofobia ì un vizio/vezzo che non
ci si può assolutamente premettere; non foss’altro perché getterebbe Mosca nelle braccia di Pechino a tutto vantaggio della seconda; aprendo un confronto con l’Occidente, nefasto per qualsiasi ordine internazionale degno di questo nome. E, aggiunta non marginale, un confronto in cui l’occidente non è affatto sicuro di poter vincere.
Di qui la necessità assoluta di normalizzare i rapporti con Mosca. Contemperando, cosa non facile ma perfettamente possibile, l’impossibilità di vedere rimessi in discussione i nuovi equilibri geostrategici sopravvenuti nel corso degli ultimi trent’anni, ma con il riconoscimento pieno delle esigenze di sicurezza enunciate da Mosca.
Una normalizzazione, e questa è la terza ragione, che interessa anche l’Europa. In un contesto in cui, contrariamente all’opinione più diffusa, è nostro interesse vitale favorire, sin da oggi, l’affermazione di una classe dirigente russa con lo sguardo rivolto ad occidente; e non certo in vista di inesistenti aggressioni ma, piuttosto, di nuovi rapporti di collaborazione. E in ogni campo.