DI MARIO PIAZZA
Se un marziano si fosse intrufolato tra i giornalisti per ascoltare il discorso di inizio mandato del presidente Mattarella e avesse visto con i suoi occhi la valanga di applausi entusiasti che hanno accompagnato ogni frase sarebbe certamente tornato sul suo pianeta indicando ai suoi compianetari l’Italia come fulgido esempio di chi lotta per la giustizia, l’onestà, l’amore e la libertà.
Non ha tralasciato, omesso o dimenticato nulla il Presidente, tranne il fatto che le persone davanti a lui ad acclamarlo sperticatamente erano, chi più e chi meno, gli artefici di almeno alcune della valanga di nequizie che il suo discorso aveva puntigliosamente elencato.
La differenza tra un discorso glorioso e una lettera a Gesubambino sta tutta lì, nella qualità non di chi scrive ma dei suoi destinatari.
Magari fosse stato reale il berciare meloniano che nei giorni scorsi abbiamo ascoltato, quello contro il secondo mandato che definiva la rielezione di Mattarella come una monarchia.
Sarebbe stato bello vedere il Sovrano alla fine del discorso che estraeva una pergamena per elencare i castelli e le ricchezze confiscati ai nobili infedeli, i nomi dei congiurati da recludere nei sotterranei del Quirinale, quelli dei vigliacchi da spedire in esilio preferibilmente in Africa o nei Balcani, quelli dei traditori da affidare all’ascia del boia.
Così sarebbe dovuto finire il discorso in nome di quella dignità invocata da Mattarella per diciotto volte, ma noi siamo un paese democratico e dobbiamo accontentarci e persino emozionarci per quel “Viva l’Italia” dal retrogusto più scaramantico che patriottico.