LE MIE ROSE E L’OSPEDALE BOMBARDATO…

DI ANTONELLA PAVASILI

 

Stanno sedute sul divano, una accanto all’altro.
Il plaid sulle gambe, la stufa accesa, gli occhi incollati alla televisione, il fazzoletto in mano.
Si asciugano furtivamente gli occhi.
Stanno piangendo.
Che succede, chiedo.
E loro si lasciano andare, e mi raccontano la notizia.
“Non ci vosi veniri nu scuncassu mi mori subitu stu disgraziatu! U spidali di picciriddi bummaddoi, non si sapi quantu nni mureru…”
La zia Rosa è indignata, non riesce a trattenere lo sdegno.
“Picciriddi malateddi e fimmini incinti…non si sapi quanti nni mureru…stu disgraziatu…ma non nn’avi cori? Non putiunu essiri i so niputeddi? I picciriddi malateddi…iddu no sapi chiddu chi voli diri aviri un picciriddu malatu…”
La mamma è inorridita e parla quasi singhiozzando.
Perché loro, le mie Rose, lo sanno bene quanto dolore vi possa essere in un ospedale pediatrico.
Mezzo secolo fa, per cinque anni, ci sono state tante volte in un ospedale pediatrico.
Mia cuginetta era ammalata ed era spesso ricoverata.
E in un ospedale pediatrico si intrecciano la vita e la morte.
La morte insegue e la vita scappa, fugge, cerca di non farsi acchiappare.
La morte digrigna i denti e la vita risponde con il sorriso innocente di un bambino.
La morte urla e la vita sussurra la dolce filastrocca che una mamma canta ad un bambino malato.
La morte spesso vince, ma la vita non si arrende mai.
Mai.
Finché c’è un respiro, finché c’è un filo di speranza, la vita non s’arrende mai.
Mai.
Fin quando dal cielo non piovono bombe.
Perché quando dal cielo piovono bombe su un ospedale pediatrico è la fine.
Della vita, dell’umanità, della speranza.
E hanno ragione le mie Rose.
Lui non lo sa cosa significhi avere un bambino malato, non capisce il dolore, la disperazione.
Perché se lo capisse avrebbe un cuore.
E chi bombarda un ospedale pediatrico un cuore non ce l’ha.
E pagherà per tutto il dolore seminato.
Anche per quello delle mie dolci Rose.