DI CLAUDIA SABA
Lei si chiama Laura Massaro. Ha lottato come una tigre contro una legge che aveva già deciso che suo figlio sarebbe stato meglio in una casa famiglia piuttosto che con lei. Misteri di una giustizia ingiusta e troppo spesso incomprensibile.
Il calvario di Laura inizia otto anni fa quando decidono di collocare suo figlio in una casa famiglia. Togliere un bambino alla mamma è un fatto gravissimo come gravissime dovrebbero essere le motivazioni per giustificare un provvedimento così drastico. Ma Laura non ha commesso alcun reato. Era stata considerata “una madre alienante” in nome della Pas (sindrome di alienazione parentale) tesi già bocciata dalla Corte di Cassazione perché “priva di valore scientifico”.
In favore di Laura si sono mossi centri anti violenza e molti esponenti politici tra cui la senatrice Valeria Valente, presidente della commissione Femminicidio e violenza di genere, che si è occupata in prima persona della vicenda.
Ieri, la notizia più bella.
Dopo tante battaglie, Laura Massaro ha vinto. La Suprema Corte ha cassato la decisione della Corte di appello di Roma che condannava il figlio di Laura Massaro a essere portato via dalla casa dove vive con la mamma e i nonni, obbligandolo ad incontrare il padre, di cui ha sempre avuto paura. Laura, adesso, è finalmente libera.
La Cassazione ha annullato la decisione di decadenza dalla responsabilità genitoriale sul figlio minore e di trasferimento del bambino in casa-famiglia, ritenendo che l’uso della forza per prelevare il bambino sia fuori dallo Stato di diritto. La Corte di cassazione ribadisce che “il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre”.
La storia di Laura poteva diventare l’ennesima ingiustizia contro una donna che decide di denunciare violenza, abusi e maltrattamenti.
Ha invece segnato la vittoria di chi non si è mai voluto arrendere.
E alla fine … vince.