DI RAFFAELE VESCERA
Sotto il governatorato di Badoglio, assistito dal generale Rodolfo Graziani, si ebbe tra il 1929 e il 1931 un mutamento qualitativo dei sistemi di repressione e di annientamento tradizionali.
Il nuovo governatore comprese che i ribelli traevano la loro forza dal solido legame con il popolo libico, all’interno del quale si muovevano come pesci nell’acqua, e che senza colpire la popolazione indigena superando ogni residuo sentimento di umanità la repressione fascista rischiava di restare inefficace.
Alle iniziali rappresaglie contro i civili, fece seguito l’applicazione di un piano organico di deportazioni di massa di intere tribù da una località all’altra, dove si riteneva che esse fossero più controllabili.
Proseguendo in questa logica, si arrivò all’installazione di veri e propri campi trincerati in pieno deserto, in un primo tempo come misura provvisoria per individuare e snidare i ribelli, e successivamente come misura permanente di insediamento di popolazioni che l’incipiente teorizzazione fascista della stirpe contribuiva ancor di più a considerare una razza inferiore.
Questa deportazione di 80.000 persone abituate sino a quel momento al nomadismo dà la misura di tutta l’efferatezza del colonialismo fascista.
Nel 1949 , il ministro degli esteri iracheno , difendendo alle Nazioni unite il diritto all’indipendenza della Libia, giunse ad asserire che sotto la dominazione fascista la popolazione libica, in seguito a dispersione e stermini, si era ridotta del 75 per cento.
Improntato ad analoga bestialità fu il trattamento dei capi della guerriglia, in parte precipitati dagli aerei, in parte impiccati all’interno dei campi di deportazione, al fine di atterrire le popolazioni.
Tale sorte fu inflitta al capo della resistenza libica, Omar El Muktar, impiccato il 16 settembre 1931, cinque giorni dopo in capo a un processo farsesco.
Da Storia d’Italia, di Ernesto Ragionieri, ed. Einaudi, pg 2189