IN RICORDO DEL CAPITANO EMANUELE BASILE

DI LEONARDO CECCHI

 

Le fece da scudo. Fu l’ultimo gesto di un padre, un carabiniere che tornava a casa con la figlioletta in braccio, addormentatasi. I tre sicari della mafia, che lo videro con la figlia in braccio, iniziarono a sparargli addosso e lui, capendo cosa stava avvenendo, la strinse di più per proteggerla.
L’uomo era Emanuele Basile, capitano dei carabinieri. Giovane promessa dell’Arma, in rapporto con Paolo Borsellino. Indagava sui traffici di stupefacenti della mafia, sul boss Riina e sull’omicidio del commissario Giuliano.
Aveva solo trentuno anni quando la mafia decise che stava facendo troppo. E come sempre, non si fece alcuno scrupolo nell’ucciderlo. Anche se con lui c’era la figlia, anche se rischiarono di ucciderla, e anzi, probabilmente avrebbero preferito.
Emanuele morì quella notte stessa. All’ospedale corse anche Borsellino, ma non c’era più niente da fare.
La figlia, Barbara, sopravvisse e ancora oggi si porta addosso il peso di quella notte, in cui rovinò a terra coperta dal corpo del padre.
La mafia uccide in tanti modi e crea dolore in tanti modi. A volte anche lasciando cicatrici indelebili.
Nel ricordo di uomini come Emanuele Basile, teniamo a mente di cosa è capace la mafia. Perché solo così non rischiamo di perdere la bussola, umanizzandola. Perché la mafia non ha niente di umano.