DI MICHELE PIRAS
Nei primi anni del nuovo millennio scendemmo in piazza contro la seconda guerra in Iraq, lo facemmo anche tempo prima, nel 1991.
Scendemmo in piazza, per la verità in pochissimi, anche contro la guerra in Afghanistan e poi da sempre per i diritti del popolo palestinese, di quello curdo, di qualsiasi popolo schiacciato da dittature e guerre.
Lo facemmo quando altri forse dormivano.
Da parlamentare mi sono sempre battuto contro il commercio indiscriminato di armi, contro l’occupazione militare della mia regione, contro l’invio di armi a Paesi di dubbia democraticità o che aggredivano altri popoli.
Anche quando si trattava dei cosiddetti alleati strategici.
Da esponente italiano nell’Assemblea parlamentare della Nato nel 2014, criticai aspramente l’espansione a Est della Nato, così come la politica occidentale nel Medio e Vicino Oriente.
Lo feci circondato da sguardi e atteggiamenti di disapprovazione, pur detestando la politica di Putin, il suo espansionismo altrettanto quanto il suo atteggiamento dittatoriale nei confronti dei diritti civili, la sua politica guerrafondaia e il nazionalismo mascherato da antimperialismo.
Oggi dunque non accetto lezioni di pacifismo e non mi arruolerò comunque fra gli atlantisti acritici, così come non accetto da sempre la visione di coloro che sposano la causa di chiunque per partito preso, anche quando questa causa è palesemente sbagliata, pur di dare addosso agli Usa o all’Alleanza Atlantica o viceversa.
Costruire la pace non significa essere neutrali, non guardare in faccia alla realtà, sottrarsi al tema del legittimo diritto dei popoli di difendersi se aggrediti.
E allora oggi come ieri il punto è che la parola deve tornare alla ragione, che non è mai quella degli interessi economici e militari che soffocano devastano le esistenze degli esseri umani.
La ragione è dei popoli.
E la loro ragione è la pace, il dialogo, la cooperazione pacifica.
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