LA CORTINA DI FERRO

DI MARIO PIAZZA

 

A noi piaceva tanto quell’espressione usata per descrivere i 1300 chilometri che, da Trieste a Stettino in Polonia, dividevano il kennediano mondo libero (Free World) dal reaganiano impero del male (Evil Empire).
Dalla nostra parte tutto il bene del mondo, dall’altra tutto il male. Era così facile da capire quel bianco o nero che non abbiamo fatto nessuna fatica a innamorarcene. Nel frattempo la storia scorreva sotto i nostri occhi ma gli innamorati, si sa, vedono soltanto ciò che vogliono vedere.
I cattivi invadevano l’Ungheria e i buoni il Vietnam.
I cattivi avevano i gulag e i buoni facevano stragi in mezza Africa, le ragazze rumene la davano via per un paio di jeans e quelle sudamericane per nutrire i propri figli, a Berlino i cattivi Vopos sparavano a chi tentava di scavalcare e sul Rio Grande la buona National Guard faceva la stessa cosa. Potrei continuare per un bel po’ con questo triste gioco di pesi e contrappesi ma il punto è un altro.
Sotto i nostri occhi la cortina di ferro che credevamo abbattuta insieme al muro di Berlino è stata ricostruita più alta di prima, ci dicono per garantire la nostra sicurezza, solo che questa volta i chilometri non sono 1300 ma più di 15.000 e dall’altra parte del muro non ci sono più mugichi, matriosche e qualche centinaio di milioni di morti di fame. Dall’altra parte del muro ci abbiamo messo anche un miliardo e mezzo di cinesi e tutte le loro risorse produttive, economiche e militari.
Vuoi vedere che a forza di chiudere fuori i cattivi in nome di una immaginaria superiorità morale quelli finiti richiusi in un pollaio siamo proprio noi?
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