DI PIERO ORTECA
Non solo petrolio. Biden in Arabia Saudita e in quella parte di mondo dove la Russia non è nemica. Non solo petrolio ma un quadro di relazioni su cui Washington cerca di tornare a una maggiore presenza. Biden a metà mese in Israele, Palestina e Arabia Saudita dove incontrerà il discusso erede bin Salman.
Obiettivo dichiarato: «Rafforzare l’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza e la prosperità di Israele e partecipare al vertice del Consiglio di Cooperazione del Golfo con Egitto, Iraq e Giordania».
A Jeddah, è previsto l’incontro con Re Salman d’Arabia Saudita e suo figlio, l’erede al trono e factotum del regno Mohammed bin Salman, nei confronti del quale il presidente americano aveva riservato un trattamento decisamente freddo dopo l’assassinio dell’oppositore Khashoggi.
Il Re saudita con l’allora Vice presidente Biden
Realpolitik e la ‘nazione paria’
Che ci va a fare Biden in Medio Oriente? Ma, soprattutto, quale poderosa “realpolitik” lo spinge a rimangiarsi tutti i giudizi al vetriolo, espressi sull’Arabia Saudita in passato, e a recarsi, la prossima settimana, “in pellegrinaggio” anche a Riad? Beh, evidentemente la politica internazionale, quando decide i destini di miliardi di esseri umani diventa una cosa fin troppo seria. E se sei il Presidente degli Stati Uniti devi tenere la lingua a freno e fare ciò che ti consigliano i tuoi “adviser”. Così, oggi, la nemesi, quasi una beffa del destino, è che Biden dovrà visitare, “obtorto collo”, quella che lui aveva definito spregiativamente “una nazione di paria”. Manifestando, tra le altre cose, tutto il suo disgusto per il bestiale assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, ucciso e fatto a pezzi nel Consolato saudita di Istanbul. Da allora, l’attuale Presidente Usa non ha mai avuto grande simpatia per l’uomo forte del regime di Riad, il Principe bin Salman. Adesso, però, i problemi che l’America deve affrontare sono talmente gravi e complessi che non ci si può permettere di fare gli schizzinosi.
Medio Oriente trascurato
Il Medio Oriente resta una polveriera e Putin (ma anche la Cina) continua a giocare le sue carte. La situazione sul campo è complicata da un vespaio di alleanze e di inimicizie che cambiano tutti i giorni. Per gli Usa, Israele è l’unico punto di riferimento veramente affidabile. E, infatti, sarà la prima tappa del viaggio di Biden. Il problema è che lo Stato ebraico è ormai da anni in crisi politica cronica e non riesce a darsi un governo stabile. Crisi che attraversa anche l’universo palestinese, spaccato tra l’Autorità di Abu Mazen e Hamas. Biden spera di accelerare il riavvicinamento tra Gerusalemme e i sauditi, in chiave anti-iraniana. Conta, così, di ottenere da bin Salman un segno di “riconoscenza”: un aumento delle quote di produzione petrolifera. Per calmierare i prezzi. Cioè, quello che non ha ottenuto dagli ayatollah, legati mani e piedi a Mosca. Anche in questo caso la diplomazia americana si sta muovendo sul filo del rasoio. E sta giocando su più tavoli, in modo spregiudicato.
Ancora l’irrisolto nucleare iraniano
Visto, infatti, che i colloqui ufficiali di Vienna, sul nucleare iraniano, hanno fatto un buco nell’acqua, il Dipartimento di Stato ha organizzato “abboccamenti” bilaterali con gli ayatollah, in Qatar. Cosa hanno promesso gli americani? Qui torniamo a un vecchio leit-motiv, frequentemente circolato in questi mesi. E cioè le presunte, larghe concessioni che Biden sarebbe stato sul punto di fare, per convincere gli iraniani a firmare. Voci insistenti, che avrebbero fatto irrigidire gli israeliani e mandato su tutte le furie i sauditi. Ma ora Biden si è rimangiato tutto. A cominciare dagli insulti a bin Salman. D’altronde, si sa, la storia è piena di esempi in cui i diritti umani diventano un concetto “a geometria variabile”.
“Su quest’aspetto il “Guardian” è impietoso: “Gli attivisti per la democrazia, che deplorano il voltafaccia di Biden, indicheranno anche innumerevoli altre vittime, di violazioni seriali dei diritti umani da parte di autocrati e dittatori del Medio Oriente sostenuti dall’Occidente”.
Voltafaccia-rivoluzioni diplomatiche
Ergo: gli interessi che alimentano simili comportamenti contraddittori, mascherati da “rivoluzioni diplomatiche”, devono essere veramente grossi. Nel caso specifico, parliamo di una manovra americana, tesa a riappropriarsi strategicamente di un ruolo geopolitico che Trump aveva abbandonato. Il disimpegno dall’Afghanistan e dall’Iraq era stato progettato dall’ex Presidente repubblicano, in ossequio alla sua filosofia neo-isolazionistica “America first”. Per la verità anche Obama, dopo l’insuccesso delle Primavere arabe, si era tirato un po’ i remi in barca. Solo la guerra civile siriana e la pericolosa espansione dell’Isis avevano convinto gli Usa a restare sul campo. E a fare spazio anche ai russi. L’intesa militare o, meglio, il gentlemen’s agreement siriano tra Gerusalemme, Washington e Mosca, che, secondo alcuni analisti, è diventata la chiave di tutte le successive incomprensioni e sottovalutazioni alla base dell’invasione russa dell’Ucraina.
Scenario molto compromesso
Biden, dunque, ha senz’altro l’attenuante di essersi trovato davanti a uno scenario già parzialmente compromesso. Né è stato assistito dalla buona sorte: pandemia, alterazione dei cicli economici, guerra in Ucraina e inflazione hanno messo in subbuglio il pianeta. Ora la strada è tutta in salita. La contrapposizione globale si va cristallizzando tra l’Occidente da un lato, guidato da Washington, e l’asse Russia-Cina dall’altro. In mezzo c’è il resto del mondo, pronto a schierarsi con chi gli conviene, ma che non ha pregiudiziali “ideologico-istituzionali”.
“Questo vuol dire che non tutto ciò che per noi europei è “sacro” o “prioritario” lo debba essere anche per gli altri. Perché, a volte, “la verità è una bugia che non è stata ancora scoperta” (proverbio arabo)”.
Di Piero Orteca da
5 Luglio 2022