DA MIMMO MIRARCHI
Da: “Pensieri così” di Vincenzo Cerami – Riproposto da Mimmo Mirarchi
La sinistra ha difficoltà a rinnovare il proprio linguaggio. A ben studiarlo, esso riflette le contraddizioni di un’identità non trovata. L’elemento più teatrale di questo linguaggio è la carica fortemente evocativa di un’idea palingenetica della politica, come se fosse la politica a produrre cultura e non viceversa. Un’eredità, questa, forse ineludibile nella sinistra, che ha ancora lontani riferimenti con la genetica memoria della dittatura del proletariato. La concezione di un automatismo diretto tra gesto politico e risposta culturale è un retaggio tanto ideologico quanto semplicistico del passato.
Mi rendo conto che la più importante rivoluzione della sinistra, cioè quella del linguaggio, può avvenire solo dopo che si sia fatta piazza pulita di una lunga serie di pregiudizi ottocenteschi.
Il primo di questi pregiudizi è un malinteso senso del primato della politica, che si esprime anche con la visione schizofrenica di un mondo diviso in società civile e quadri avanzati. Personalmente l’idea di far parte della cosiddetta «società civile» mi fa ridere, anche perché ho sempre sperato di far parte di quella «incivile». Bisogna pur dire che questo pregiudizio viene condiviso, nel nostro Paese, da una destra che ancora guarda il mondo senza mettere in gioco, per vocazione antistorica e retriva, le mutazioni culturali della comunità.
Nella testa degli uni e degli altri, della destra e della sinistra, sopravvive l’immagine di un’Italia sociologicamente divisa, mentre essa è spaccata solo secondo gerarchie di privilegio. Nessuno ha ancora preso atto culturalmente (e anche linguisticamente) che il nostro paese è una perfetta società di massa, in balia della comunicazione e dell’informazione più che della politica.
Tutto quanto fa riferimento a una realtà diacronica, a una pedagogia, alla memoria storica, e non tiene conto dell’anomia che sempre caratterizza le società di massa, è condannato a sbagliare ogni analisi. Il riformismo, per fortuna, ha perso i suoi connotati e i suoi contenuti «etici» (che per quanto mi riguarda quasi mai ho condiviso nella mi vita, dato che ho una personalissima idea dell’etica) per proporsi come asettico ingrediente allo scopo di far meglio funzionare un capitalismo che fisiologicamente è ingiusto e destabilizzante.
Con la scomparsa delle classi divise per culture non ha senso guadare i cambiamenti come frutto di una dialettica tra forze per cultura opposte. Gli scontri (ed è stato sempre così, anche se un tempo erano mascherati dalla lotta di classe) avvengono allo scoperto e le pedine sul tappeto sono numeri: cifre economico-finanziarie e quote di consenso elettorale.
Con ciò non voglio certo dire che gli italiani siano tutti uguali e cloni del prototipo cittadino massificato. Una destra e una sinistra esistono. Non tanto separati per cultura quanto per una diversa disposizione intellettuale. Tanti anni di opposizione, cioè di un secolare richiamo a ideali più o meno realizzabili, ha educato molte generazioni a non identificare il proprio interesse con l’interesse generale. Per questa ragione la sinistra può farsi forte di un’idea «morale» del capitalismo. Idea morale che i cattolici, non più protetti dall’alibi della guerra fredda (quando hanno difeso e amministrato il potere), oggi possono ritrovare solo nella posizione avanzata che il pontefice ha assunto nei confronti delle spietate logiche del mercato.
Al di sotto di queste differenti posizioni intellettuali, la massa italiana, come diceva Pasolini, è «omologata», cioè monoculturale, sia dal punto di vista linguistico (dopo la scomparsa dei dialetti) che fenomenologicamente (dopo la scomparsa delle minoranze culturali). Da noi l’origine piccolo borghese del pensiero di destra (e del centro) è la stessa della sinistra. Solo che la sinistra, per darsi un corpo diverso e una diversa forma mentis, alternativa e autonoma, si è costruita un’identità «in opposizione» ai disvalori piccolo borghesi.
Il comunista era innanzitutto un non-razzista, un non-conformista, un non-borghese. Era un «non-essere» e non un «essere». Il mito della diversità raccontava dolorosamente l’impotenza di un uomo di sinistra che non riesce a essere qualcosa di diverso dal piccolo borghese che era.
L’Italia, proprio perché storicamente priva di identità nazionale, è stato il primo paese europeo a trasformarsi in società di massa. Nessuna barriera protettiva è stata posta di fronte all’invasione culturale americana, com’è successo in Francia e in Germania. In questo senso è un paese all’avanguardia perché anche gli altri paesi stanno conoscendo un profondo cambiamento in direzione delle società di massa. Solo la nascita di una reale identità europea può modificare una tendenza all’americanizzazione che sembra oggi inarrestabile.
I segni che formalizzano il linguaggio della sinistra attuale sono esplosi negli anni Sessanta e Settanta e oggi hanno difficoltà a raccontare oggettivamente il presente. I suoi referenti impliciti sono svuotati di contenuto, sono tutt’al più sopravvivenze, piccoli segmenti di verità. Nella sostanza andrebbe con pazienza riscritto il lessico, definendo ogni parola e ogni concetto. Ma soprattutto vanno meglio individuati i settori che incidono sulla qualità della vita. Bisogna avere il coraggio, tra l’altro, di affermare che quel linguaggio, essendosi poco allenato con le terminologie della democrazia che un tempo la sinistra rimuoveva definendola «borghese», non riesce a esprimersi senza ambiguità. Per esempio: che senso ha il termine «conservatore» nella società di massa tutta sincronica? Anche «qualunquismo» non significa niente in una realtà dai segni esplosi.
La parola «fascista» non può essere più usata come una metafora quando il potere ha perso ogni centralità politica dislocandosi nelle logiche dei mercati. Il «conformista» oggi è solo colui il quale si comporta secondo i modelli del mercato, mentre fino a ieri aderiva all’immagine del bravo italiano proposta dall’ideologia piccolo borghese. Il termine «conformista» ha perso per strada ogni connotato anche vagamente politico.
È dal pathos che va depurato quel linguaggio, perché crea giuste diffidenze, suggerisce l’idea della politica come qualcosa che serve a creare cittadini giusti, onesti e felici. E io voglio avere il diritto di scegliermi un’idea personale, tutta mia, di giustizia, di onestà e di felicità. La politica mi metta nella condizione di perseguire questi miei obiettivi, ma si fermi là. Voglio essere libero di continuare a pensare che malgrado non ci sia alternativa alla democrazia, la maggioranza ha sempre torto. Ogni maggioranza.
Di Vincenzo Cerami
(brano tratto da “Pensieri così” – Garzanti Editore – 2002)
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4 Agosto 2022