DA REDAZIONE
Non ci sarà mai l’ufficialità, ma ormai è chiaro a tutti. Di Maio si è perdutamente innamorato del principio di non ingerenza. Lo cita ogni volta che un russo parla di qualcosa che non riguarda la Russia.
Qualche settimana fa aveva litigato a distanza con Marija Zacharova, la portavoce del ministro degli Esteri Lavrov, che all’indomani delle dimissioni di Draghi si era permessa di esortare Di Maio a non cercare all’estero le cause dei problemi dell’Italia, dopo che il transfuga dei 5 stelle aveva accusato la Russia di volerla destabilizzare. «Queste sono gravi ingerenze nei confronti dello Stato italiano»: così aveva replicato alle dichiarazioni della Zacharova l’ex manager della somministrazione di bevande presso lo stadio San Paolo di Napoli.
Stavolta se la prende con Dmitrij Medvedev, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa, che su Telegram ha invitato i cittadini europei (si badi bene: europei) a chiamare i loro governanti «a rendere conto, punendoli per la loro evidente stupidità».
Non l’avesse mai detto. «Preoccupante ingerenza del governo russo nelle elezioni italiane», tuona Luigino, accusando la Russia di «intervenire a gamba tesa su questioni di politica interna, questa volta dando anche un’indicazione di voto» (sic!).
È ormai evidente che Di Maio ha elaborato un sentimento intimo per il principio di non ingerenza, senza tuttavia sapere cosa esso sia. Proprio come quando ci si prende una cotta per una persona senza conoscerla.
Il principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato è un secolare principio di diritto internazionale, corollario del principio di sovranità. Ogni Stato deve astenersi dal tenere comportamenti che ostacolino l’esercizio della sovranità di un altro Stato.
Storicamente la tendenza degli Stati è sempre stata quella di evitare di invocare a sproposito questo principio, attribuendo rilevanza soltanto a fatti tangibili e caratterizzati da una certa gravità, escludendo per converso che la mera critica, anche aspra, di uno Stato nei confronti del comportamento di un altro Stato potesse mai arrivare ad essere considerata un’ingerenza.
Quando nel 1921 l’Italia, attraverso il proprio console a Boston, protestò contro lo Stato del Massachusetts per la sentenza di condanna a morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti emessa al termine di un processo-farsa, il governatore Alvan Fuller rispose che nulla avrebbe potuto nei riguardi dell’autonomo sistema giudiziario. Ma neppure si sognò di accusare l’Italia di ingerirsi negli affari interni dello Stato del Massachusets attraverso quella formale protesta.
Quando, il 19 giugno 1924, il partito laburista inglese adottò all’unanimità una risoluzione con cui esprimeva riprovazione per l’uccisione dell’onorevole Giacomo Matteotti e piena solidarietà al partito socialista italiano, denunciando nel contempo la connivenza delle istituzioni fasciste, a Mussolini non passò nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di accusare gli inglesi di ingerenza nei riguardi dello Stato italiano, nonostante la risoluzione fosse sottoscritta anche dal premier Stanley Baldwin e da alcuni ministri del Governo di Sua Maestà.
Insomma, il divieto di ingerenza riguarda fattispecie gravi, ma soprattutto concrete. Un esempio di violazione di tale divieto è quella accertata dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 1986, quando condannò gli USA per le attività paramilitari in Nicaragua, consistite principalmente nell’assistenza logistica e nella fornitura di armi ai Contras che si opponevano al Governo sandinista insediatosi nel 1979.
Auspichiamo che Di Maio si prodighi in uno sforzo molto maggiore del suo Impegno Civico nello studiare, e finalmente capire, cos’è il principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato.
Di Antonello Tomanelli
19 Agosto 2022