DI RINALDO BATTAGLIA
Il fascismo non è definito dal numero delle sue vittime, ma dal modo in cui le uccide
Ho sempre amato Jean Paul Sartre per la sua lucidità storica e per il dono della sintesi. La sua definizione del fascismo – che è non definito dal numero delle sue vittime, ma dal modo in cui le uccide – è, a mio avviso, perfetta. E Sartre credo abbia tutti i titoli per giudicare, avendo conosciuto sulla sua pelle il fascismo, il nazismo e i lager nazisti.
La vicenda di cui oggi ricorre il 78° anniversario, purtroppo, rispecchia perfettamente questo concetto.
E – onde evitare subito scarichi di colpe sui nazisti e sul nazismo – questa è vicenda domestica, di guerra civile italiana, di fascisti contrapposti a partigiani e – meglio – al modo specifico di come si sia ‘uomini’ e di come si combatta da uomini, fascisti o partigiani che fossero, anche in tempo di guerra.
La vicenda del 29 agosto 1944 avvenne sulle Langhe piemontesi.
E’ passata alla Storia come l’eccidio di Cerequio di La Morra.
In quel momento va subito detto che la situazione per i nazisti e peggio per i fascisti di Salò era alquanto critica.
Le brigate partigiane (soprattutto la 48ª brigata Garibaldi e la brigata Autonoma Bra) – si parla di oltre 15.000 uomini – già dalla primavera ‘44 stavano attaccando su più fronti le forze nazifasciste.
Da Salò e soprattutto dal gen. Rodolfo Graziani – numero due dopo Mussolini – si ordinò una metodica e continua fase di rastrellamento. In particolare dopo l’insuccesso delle leve per i ragazzi del 1924 e 1925 (a breve si arriverà anche a quelli nati fino al 30/6/1926). Quasi tutti preferivano scappare in collina coi partigiani per quanto giovani, impreparati ed inesperti fossero, piuttosto che entrare nelle brigate nere e combattere per il Duce e il Fuhrer.
La situazione si accelera nella settimana tra il 20 e il 26 agosto ‘44.
Gli uomini di Salò non possono subire: sul territorio vengono mandate truppe fresche e fanatiche.
La Divisione Monterosa – appena tornata da mesi di formazione in Germania, presso ufficiali nazisti di rango, e vogliosa di passare dalla teoria alla pratica – e la Brigata Nera Mobile “Ricciarelli”.
Ai tedeschi resta un ruolo ancora marginale, se non quello di rastrellare chiunque si trovi (uomini da 16 a 65 anni) – qui come altrove – da spedire nei lager nazisti quale schiavi per mantenere in vita la forza industriale del Terzo Reich, assieme agli altri 700/800 mila IMI.
La giornata decisiva risulta il 28 agosto: le forze repubblichine sono maggiori e migliori. In Val Bormida e da Cherasco arrivano fino al Tanaro, sorprendendo i partigiani. Il giorno dopo all’alba superano i guadi della diga di Costangaresca, diretti velocemente verso anche i comuni di La Morra e Verduno, in particolare le località di San Bartolomeo e Meane. Qui riescono a bloccare un gruppo di partigiani rimasti indietro, forse perché troppo giovani e troppo inesperti.
Sono una trentina.
Il comandante delle Brigate Nere, il sottotenente Luigi Danilo Pei, decide di intervenire. Intima la resa ai partigiani e garantendo loro la vita – dopo un lungo parlare – questi si arrendono. E la tarda mattinata del 29 agosto.
Vengono subito presi e condotti presso la cascina Averame nella località di Cerequio frazione di La Morra, comoda allo scopo di prigione momentanea.
Ma la parola del comandante Pei non viene mantenuta: subito dopo il loro arrivo alle 13,30 già 18 partigiani vengono immediatamente passati per la mitraglia, già pronta da ore.
Altri 13, provenienti da un’altra via, vengono portati verso il paese di La Morra e fucilati lungo la strada.
Per proseguire la festa i fascisti danno fuoco all’albergo del paese – ritenendolo un rifugio dei partigiani – e il giorno dopo proseguono con più forza i rastrellamenti contro la popolazione civile della zona.
Si racconta che alla fine i morti siano 31, altri arrivano a 35, considerando anche altri corpi trovati ammazzati in zona in quei giorni e probabilmente legati all’eccidio in oggetto, tra cui due partigiani garibaldini uccisi a Santa Maria, lì vicino, uno sulla strada di Alba e un contadino, freddato a La Morra.
Una cosa è certa e documentata: i 31 partigiani, subito uccisi dopo essersi arresi e dopo aver garantito loro la vita da parte del comandante in campo, erano ragazzi di 20, massimo 23 anni. Ma anche due ragazzi, Edulo Carlo, 15 anni, e Sapino Giuseppe, 17 anni, ambedue delle Brigate “Garibaldi”.
Erano giovani e non avevano ancora bene imparato cos’era e cos’è stato il fascismo in Italia. Non lo conoscevano e si fidarono, pagandolo con la vita.
La vicenda di Cerequio prosegue anche nell’immediato dopo guerra, quando il comandante delle Brigate Nere Luigi Danilo Pei, responsabile della promessa mancata e dell’eccidio dei partigiani ragazzini, il 10 maggio 1945 venne identificato da testimoni dell’eccidio, assieme ad altri 5 fascisti, nel carcere di Bra. Verranno così fucilati. Le amnistie successive non lo salvarono.
Per anni sul massacro di Cerequio La Morra cadrà il silenzio e solo nel 2005 si è attribuito alle vittime la medaglia d’argento al merito civile.
Dell’eccidio, in zona, si racconta anche la storia dei genitori di Pino Lamberti di Bra, ucciso quel giorno a 19 anni, e di Carlo, ammazzato a 20 anni dai fascisti in fuga, a Rivalta di La Morra.
Il giorno che venne liberata Bra, un partigiano amico dei due ragazzi, volle andare a salutare quei genitori. Al suo arrivo la madre si nascose e rimase lontano, di certo a piangere. Il padre rimase nell’orto di casa, per non farsi sorprendere in lacrime. Il partigiano gli si avvicinò, voleva dirgli mille cose, ma un nodo alla gola gli permise solo di far uscire due parole in croce: ‘Bra è libera’. E scappò via di corsa, per non farsi vedere anche lui in pianto. Si ricordava come era stato ucciso in particolare Pino e, in quel momento, gli venne a mente che proprio quel giorno avrebbe compiuto 20 anni.
E a 20 anni devi avere una vita davanti, non dietro alle spalle e sottotterra.
“Ai vecchi perché ricordino,
ai giovani perché sappiano quanto costa riconquistare la libertà perduta.”
disse un giorno Sandro Pertini.
Resta da chiedersi in Italia – 78/80 anni dopo quei fatti – in che cosa e dove abbiamo sbagliato. Oggi abbiamo vie dedicate a Giorgio Almirante (in quel periodo rastrellava in Val d’Ossola), mausolei ad Affile a Rodolfo Graziani, gite a Predappio, necrologi il 28 aprile al Duce scrivendo “Sempre nei nostri cuori”.
Non so dove ma credo che qualcosa non abbia funzionato.
Durante la nostra guerra civile dall’8 settembre ‘43 a fine aprile ‘45 in 5.885 episodi di morte – dicono gli storici – sono stati uccise in Italia 24.445 persone “senz’armi in pugno”.
Mi domando talvolta a cosa sia servito.
“Ai vecchi perché ricordino,
ai giovani perché sappiano quanto costa riconquistare la libertà perduta.”
29 agosto 2022 – 78 anni dopo – Rinaldo Battaglia
liberamente tratto da ‘Alla sera mangiavamo la neve’ – ed. AliRibelli – 2021