DI ANTONELLO TOMANELLI
L’Unione Europea chiuderà lo spazio Schengen al più grande gruppo etnico d’Europa. Già dalla prossima settimana potrebbero essere emanate norme che vietano ad ogni Stato UE il rilascio dei visti di ingresso a 150 milioni di russi. Che, se fino ad oggi avevano rimediato al blocco della via aerea passando dalla terraferma, senza quel visto Roma, Parigi, Londra, Madrid, Vienna rimarranno per loro un ricordo o un desiderio da tramandare a figli e nipoti, sempre che ne avranno voglia di farlo.
Il sentore di quanto sarebbe accaduto già aleggiava da qualche settimana in Estonia, dove una giovane donna, il primo ministro Kaja Kallas, vietando il rilascio del visto di ingresso a qualsiasi cittadino russo, aveva esortato la UE a fare altrettanto su scala europea, in ciò supportata da altre due grintose giovani femmine, Magdalena Andersson, primo ministro svedese, e Sanna Marin, nota omologa finlandese, due campionesse di diritti umani colte un paio di mesi fa ad amoreggiare con Erdogan nella tratta dei rifugiati curdi.
Oggi il visto di ingresso può essere negato soltanto per specificati motivi di ordine pubblico, di sicurezza interna o di salute pubblica. Domani verrà rifiutato al cittadino russo a prescindere da qualsiasi indagine sulla persona. Una giusta risposta alla guerra che la Federazione Russa ha scatenato in Ucraina, si dice da più parti. In realtà, si tratta della più grande discriminazione di massa dai tempi della Rivoluzione Francese.
Vietare l’ingresso nello spazio Schengen a qualsiasi cittadino russo a prescindere da motivazioni individuali, richiama il concetto di discriminazione. Il discriminato è chi viene relegato in un piano di inferiorità, negandogli i diritti che spettano alla generalità solo per la sua appartenenza ad un gruppo. E su questo la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) al par. 1 dell’art. 14 è perentoria: «Il godimento di ogni diritto previsto dalla legge deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quella fondata su […] l’origine nazionale o sociale […]». Non solo. La norma è stata integrata con il Protocollo n. 12 firmato a Roma il 4 novembre 2000, che ha inserito un comma: «Nessuno può essere oggetto di discriminazione da parte di una qualsivoglia autorità pubblica per i motivi menzionati al par. 1». Per la CEDU, che un’ambasciata neghi il visto ad un cittadino solo perché russo è impensabile.
Ma ora arriva la parte spettacolare. Il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, che ha in più punti modificato il Trattato UE, ha stabilito all’art. 6, comma 2° che «L’Unione aderisce alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo». Davvero fantastico. La UE, dopo aver giurato fedeltà alla CEDU, si prepara a violarne uno dei principi più sacri.
Ma attenzione, perché la fretta che trapela dagli ambienti europei è sospetta. Pare che in settimana i ministri degli esteri si riuniranno per decidere tutto. Ma sarebbero dei folli a pensare di poter decidere tra di loro il blocco dei visti Schengen per i cittadini russi, perché una simile decisione, derogando all’art. 6 del Trattato di Lisbona, che vincola la UE alla CEDU (e quindi anche al divieto di discriminazione), può essere presa soltanto con le procedure previste per la modifica dei trattati UE: delibera all’unanimità del Consiglio Europeo (che è l’insieme dei capi di Stato o di Governo europei), sentiti la Commissione e il Parlamento Europeo. Poi, il tutto dovrà essere ratificato da ogni singolo parlamento nazionale.
Se davvero una riunione dei ministri degli Esteri degli Stati membri decidesse una deroga al trattato UE, saremmo di fronte ad un atto eversivo, soprattutto perché verrebbero saltati i parlamenti nazionali. È come se in Italia un gruppo di sottosegretari decidesse di emanare una norma generale in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza. E quando un atto eversivo proviene da una istituzione, è la morte dello stato di diritto.