DI RINALDO BATTAGLIA
Oggi è il 1° settembre. 83 anni fa, alle 4.48 del mattino colpendo, con la corazzata della kriegsmarine Schleswig-Holstein, la fortezza di Westerplatte a Danzica e subito dopo con i panzer nazisti che oltrepassavano la frontiera della Polonia, di fatto iniziava la più grande catastrofe mai avvenuta nel mondo, da quando il monde esiste. Hitler l’aveva cercata: poche ore prima aveva creato il falso incidente alla stazione radio di Gleiwitz. Ci vuole sempre un piccolo pretesto per poi giustificare i propri grandi crimini e, meglio ancora, drogare i propri fans. Che sia Danzica, Sarajevo o il Donbass, poi, cambia poco.
Hitler l’aveva cercata ed era convinto che fosse una guerra-lampo: aveva già definito accordi a sud/ovest con l’Italia fascista di Mussolini (Patto d’Acciaio a Berlino del 22 maggio ‘39) e a nord-est con l’URSS comunista di Stalin (Patto di non aggressione del 23 agosto ‘39, passato alla Storia come l’accordo Molotov-Ribbentrop). Tutto lineare, tutto previsto, tutto studiato.
L’Italia per il momento restò alla finestra, ma Mussolini – un uomo solo al comando – bramoso di dividersi la torta dei vincitori, solo 9 mesi dopo, nel giorno delle decisioni irrevocabili e degli osanna a Palazzo Venezia, la porterà in guerra. Catastrofe su catastrofe.
Gli storici insegnano che alla fine solo di morti italiani si toccheranno il mezzo milione di persone, di cui 1/3 civili. Ma si sa bene che la matematica in questi casi sia sempre carente e aleatoria. Solo di prigionieri nei lager nazisti, dopo l’8 settembre 1943, tra internati militari e rastrellati o obbligati ‘al lavoro coatto’ si parla di quasi un milione di uomini. Si potrebbe in questa occasione e di questa giornata scrivere molte cose, più o meno note, e sui più svariati argomenti, più o meno in linea con l’orgoglio nazionale. Tutte comunque dolorose.
Mi permetto di riprendere uno dei tanti eccidi che la Storia racconta sui nostri soldati, presi prigionieri dopo l’8 settembre ’43, i nostri IMI, mandati in guerra allo sbaraglio da Mussolini tra il 10 giugno ‘40 e il 25 luglio ‘43 e lasciati allo sbaraglio da Badoglio dopo il 25 luglio 1943.
Ed è una storia che bene rappresenta quel periodo di terrore, carico degli elementi caratterizzanti quella guerra, di ogni guerra peraltro: fame, tradimenti, pazzia di chi detiene il potere, sofferenza di chi lo subisce, morte, lutti perenni ed ingiustificabili. Ma è’ anche questa una storia “minore”, quasi da nessuno conosciuta, di periferia abbandonata, sempre tenuta nascosta tra la polvere e le ragnatele del nostro passato. Perché non giova a nessuno parlarne.
Mi riferisco all’eccidio di Borek-Chelm. Qualcuno, a parte gli addetti ai lavori, ne ha mai sentito qualcosa? Eppure, scherzo del destino o scelta politica dei polacchi a memoria della loro invasione a tradimento, in Europa si iniziò a conoscere quel nome proprio il 1° settembre 1946. In Europa, non da noi.
Borek-Chelm: se fosse stato il nome di una foiba – altro crimine di cui sempre troppo poco e troppo tardi se ne parla – avrebbe oggi più ‘appeal’ politico. Borek-Chelm era lo Stalag 319 operativo da luglio 1941, all’alba dell’operazione Barbarossa, fino ad aprile 1944, prima della grande fuga nazista con l’Armata Rossa all’orizzonte. Raccolse almeno 200.000 disperati di varie nazionalità. Molti gli ebrei.
Lì a Borek si trova ancora oggi un vecchio bosco secolare (siamo ad est dell’attuale Polonia a 50 km dal confine con la Bielorussia e 25 km dal confine con l’Ucraina) dove i nazisti trucidarono per poi seppellire in fosse comuni – camuffate piantumando l’intera zona – migliaia e migliaia di nostri IMI, colpevoli di essersi rifiutati di continuare la guerra al fianco della Germania nazista e aderire alla nota ‘opzione Graziani’. Ossia ritornare a combattere per Mussolini, dopo l’8 settembre.
Ancora oggi per i polacchi del luogo è la “padella degli Italiani”. O “il cimitero” se vogliamo tradurre il loro parlare, in termini più diretti e meno poetici, dato il caso.
Furono oltre 13.000 i prigionieri italiani deportati a Borek-Chelm, in condizioni climatiche terribili, visto che lo stalag era dotato di pochissime baracche ( vecchi retaggi della guerra precedente) e molti disperati per sopravvivere al gelo dovevano scavarsi loro delle fosse nel terreno. Con temperature spesso sotto i -30°. I pochi, che godevano delle baracche, di rado potevano scaldarsi perché, pur essendoci qualche vecchia stufa, la torba era quasi sempre assente.
Così descriveva, a tal proposito, nelle sue memorie Claudio Sommaruga, un reduce anche di quel campo e, forse, poi diventato il più importante storico sulla tragedia degli IMI : “I giacigli erano con assicelle rade come arcate di ponti e pochi trucioli per materasso, niente luce elettrica né acqua potabile, terreno paludoso, disciplina ferrea e ginnastica sotto la neve perché candidati alla “tratta degli schiavi”. La fame era da piaga biblica, senza pacchi da casa e appena smorzata dall’“autocannibalismo” di muscoli e grassi e dalla svendita a borsa nera degli ultimi effetti personali, con una speranza di vita di pochi mesi e con malattie favorite dall’inedia (influenza, tifo, tbc, dissenteria)”. E Claudio Sommaruga era ufficiale e quindi poteva godere delle baracche, a differenza di quasi tutti i soldati di truppa.
A guerra finita, già nei primi giorni di settembre 1946 – già 76 anni fa – gli Ebrei del ghetto vicino, quello di Chelm, sopravvissuti alla Shoah chiesero e ottennero l’esumazione delle fosse comuni nella foresta di Borek. Vennero così ritrovate 11 fosse comuni, lunghe 20 metri dove riesumarono oltre 30.000 cadaveri, molti sterminati con lo scarico di gas sulle piattaforme di camion (i gas-wagon).
Ai bordi della foresta di Borek e della foresta Kumowa Valley che includeva la città di Chelm furono trovati – a conferma – diversi camion predisposti per le emissioni di gas. Il monossido di carbonio generato dai motori a combustione interna, attraverso lo scarico, veniva invogliato con tubi in camere sigillate ermeticamente. Questo metodo venne inizialmente utilizzato con il programma di “eutanasia”, durante il quale i tedeschi uccidevano portatori di handicap. Più tardi, nel settembre 1941, i tedeschi utilizzarono lo stesso metodo per lo sterminio dei prigionieri di guerra sovietici in Bielorussia e Russia e successivamente anche in Jugoslavia e Ungheria.
Tra questi 30.000 corpi, ben 3.122 ancora indossavano indumenti o parti delle divise del nostro esercito. Erano per lo più militari italiani catturati in Grecia e nei Balcani, tra cui – dal novembre del 1943 a fine gennaio del 1944 – almeno 2.350 ufficiali italiani. Si racconta che il 19 gennaio 1944 i tedeschi scelsero, a mezzo sorteggio, un gruppo di 400 ufficiali italiani (quelli ubicati nelle baracche identificate col numero pari), che vennero all’istante caricati su una tradotta per Deblin e non fecero più ritorno. Secondo testimonianze di sopravvissuti, ne sarebbero stati fucilati 50 al giorno, dopo esposizione nel frattempo totalmente al gelo, in quanto colpevoli di aver rinnegato il fascismo e rifiutato di proseguire la guerra al fianco del loro Fuhrer.
E dopo gli ufficiali, la settimana successiva, fu la volta dei soldati sempre renitenti, “dapprima torturati al freddo senza coperte e cibo, poi mitragliati dalle SS, comandate da un maggiore, dopo essersi scavate le fosse, e dove furono sepolti”. La settimana dopo il 19 gennaio 1944?
Non è escluso che fosse legato al fatto che in quei giorni ad Anzio sbarcarono gli Alleati e per i nazisti le cose in Italia presero una piega tragica e definitiva. “Quale male, quale colpa ho io commesso?” si chiedevano i nostri disperati nei lager. Quella di esser stanchi del fascismo criminale di Mussolini e del nazismo di Hitler, nauseati, traditi, schifati a tal punto che piuttosto che tornare in Italia a combattere per Salò preferirono la morte o l’inferno degli inferni, sapendo che “l’inferno era il paradiso rispetto ad un lager nazista”, come lasciò scritto un disperato anonimo in una fessura di un lager vicino a Berlino.
“Quale male, quale colpa ho io commesso?” Si domandavano gli schiavi nei lager, va tu a spiegare loro che ancora 80 anni dopo, in Italia, nessuno sa nulla e chi sa lo nasconde affinché altri non sappiano. Potrebbero qualcuno chiedersi chi è che ha deciso quella guerra, chi ha portato una generazione alla morte, preparato treni per Auschwitz, un intero paese alla fame e due anni di guerra civile.
Dalle mie parti, poche famiglie non hanno patito lutti in quegli anni di sofferenza e pochi paesi di collina o montagna sono privi di croci, capitelli e ceppi a ricordo di quella catastrofe. A ricordo di giovani, donne, vecchi e bambini, molti bambini. Massacrati dai nazisti e i loro soci in affari & crimini, i fascisti del Duce. Solo nella mia terra vicentina dall’8 settembre ’43 a fine aprile ‘45 si documentano almeno 750 vittime in 185 azioni uccise “senz’armi in pugno”. Innocenti che vanno ad aggiungersi alla schiera di chi dai lager o dal fronte non è mai tornato.
Aveva ragione, aveva proprio ragione Bertolt Brechet col suo dire: «Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente.» Quanta di quella “delinquenza” c’è nell’Italia di oggi?
1 settembre 2022 – Rinaldo Battaglia
liberamente tratto da “Come fogli di carta igienica” – ed. Albatros – 2019 e “La colpa di esser minoranza” – ed. AliRibelli – 2020
(nella foto di Vitoronzo Pastore IMI – internati militari italiani – nello stalag XII D)