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DI ANTONELLO TOMANELLI
Chi pensa che il referendum nel Donbass sia una farsa, si prepari a una delusione. Solo negli ultimi quindici anni i tentativi di secessione per consultazione popolare sono una miriade. Montenegro, Transnistria, Ossezia del Sud, Crimea, Scozia, Kurdistan, Sud Sudan, Portorico, Catalogna, Nuova Caledonia, Sud Brasile, Tokelau, Sint Eustatius, Bougainville.Tutti con una straordinaria affluenza.
Fa eccezione il tentativo di secessione del Sud Brasile del 2016, che vide la partecipazione del 2,9% degli aventi diritto. Gli indipendentisti ci riprovarono l’anno dopo, segnando uno strepitoso 1,7%.
Comunque, hanno sempre vinto i SI, tranne che nei referendum di Portorico, Scozia e Nuova Caledonia.
Storicamente chi ha votato NO era per il principio di integralità territoriale dello Stato, uno e indivisibile. Chi ha votato per il SI invocava il principio di autodeterminazione dei popoli, un principio sancito persino dalla Carta delle Nazioni Unite, ma sempre interpretato unicamente a favore dei popoli soggetti a dominio coloniale.
Finché un giorno la Corte Internazionale di Giustizia non si pronunciò sulla legittimità del referendum del 1995 per la secessione della regione francofona del Quebec, perso per un pugno di voti. Ottawa, per scongiurare repliche, si appellò comunque alla Corte, che bocciò il referendum, ma scrisse una regola fondamentale.
Il principio di autodeterminazione può essere invocato non soltanto dai popoli soggetti a dominio coloniale, ma anche da quelli che «all’interno di uno Stato sovrano si vedono rifiutare un accesso effettivo all’esercizio del potere di governo». Che non era certo il caso del Quebec in Canada.
Questa specificazione ha cambiato un po’ tutto, perché ha ampliato a dismisura il concetto di autodeterminazione, includendovi quelle minoranze etniche, linguistiche e religiose, sparse per il globo, che non trovano spazio nella vita pubblica di uno Stato sovrano.
Ed è quello che, in effetti, accadeva nel Kosovo, autoproclamatosi indipendente nel 2008, non con un referendum, ma con il voto di un Parlamento peraltro provvisorio, e che scatenò le ire di Belgrado. Investita della questione, la Corte Internazionale di Giustizia concluse che nel diritto internazionale «non esiste una norma che vieti ad un popolo di proclamare l’indipendenza».
Ma allora, perché quello nel Donbass viene definito a reti unificate «referendum farsa»? Sarebbe arduo sostenere, rimanendo con la faccia seria, che Kiev garantisce «un accesso effettivo all’esercizio del potere di governo» ai russofoni del Donbass.
Peraltro, è evidente come l’indipendenza ottenuta con uno strumento di democrazia diretta quale il referendum, abbia una legittimazione certamente superiore a quella proclamata, in via indiretta, da rappresentanti del popolo, come nel caso del Kosovo.
Ma il diritto internazionale si evolve con l’umore degli Stati. Se mettere in dubbio l’indipendenza del Kosovo dopo l’avallo di 111 Stati membri dell’ONU è impensabile, il referendum che porta alla secessione del Donbass dall’Ucraina diventa una farsa, perché destinato ad essere riconosciuto da un pugno di Stati.
Nonostante la location giuridica sia la medesima, se non peggiore, di quella del Kosovo.