DI ENNIO REMONDINO
È cominciata come reazione alla morte della giovane Mahsa, contro il velo e per la libertà delle donne di vestirsi come credono. Non aveva un particolare connotato anti regime, ma si è rapidamente estesa per la rabbia profonda nella società iraniana contro il governo totalitario, le limitazioni culturali, le difficoltà economiche. Pessima presidenza Raisi. E la protesta è diventata persistente, e si è allargata dalle ragazze che toglievano il velo alla squadra di calcio che non canta l’inno.
Da poche piazze a molte città. Anche gli slogan sono cambiati, dalla richiesta di lasciare in pace il corpo delle donne, alla libertà della persona, ai diritti. Ora si inneggia alla morte della dittatura, e il regime teocratico è diventato il bersaglio.
“Momento George Floyd” in Iran
Vali Nasr è professore di origini iraniane alla Johns Hopkins University School of Advanced International Studies di New York. «Questa protesta è cominciata come ‘il momento George Floyd dell’Iran’ (l’uomo di colore ucciso due anni fa a Minneapolis da un poliziotto bianco che lo soffoca a morte con un ginocchio premuto sul collo). È cominciata come reazione alla morte della giovane Mahsa, contro il velo e per la libertà delle donne di vestirsi come credono. Non aveva un particolare connotato anti regime, ma si è rapidamente estesa per la frustrazione assai profonda nella società iraniana contro il governo totalitario, le limitazioni culturali, le difficoltà economiche. Anche la parte più conservatrice è insoddisfatta del presidente Raisi. Quindi la protesta è diventata persistente, e si è allargata dalle ragazze che toglievano il velo alla squadra di calcio che non canta l’inno».
Il regime diventato bersaglio
Masha ha rappresentato il ‘momento George Floyd dell’Iran’, dove la morte di una ragazza mentre era detenuta dalla polizia per una questione frivola come il velo messo male, ha scatenato la rabbia non solo delle donne laiche, ma anche di molte famiglie vicine al regime. Popolazione stanca delle sanzioni e dell’ isolamento dal resto del mondo. Di fatto, le piazze che resistono alle violenze spesso feroci del regime dimostrano l’insanabile distanza tra le nuove generazioni e la teocrazia assolutista e fori dalla realtà. «Da poche piazze a molte città. Anche gli slogan sono cambiati, dalla richiesta di lasciare in pace il corpo delle donne, alla libertà della persona, ai diritti. Ora si inneggia alla morte della dittatura, quindi il regime è diventato il bersaglio, e si sta allargando verso una contestazione complessiva della Repubblica islamica, e quindi rappresenta una minaccia esistenziale per il regime».
Teheran accusa le interferenze straniere
I leader iraniani vedono la cospirazione straniera dietro qualunque problema, ma anche la “guida suprema” Khamenei già qualche settimana fa deve ammettere problemi, ed ha elaborato una sorta di parabola politica estremamente significativa: le interferenze (certamente Usa) come la mosca che si posa sulla tua ferita, “ma se non avessi la ferita non ci sarebbe neppure la mosca”.
L’offesa plateale dell’inno nazionale rifiutato
Lo schiaffo pubblico e planetario è arrivato dai giocatori della nazionale di calcio iraniana che si sono rifiutati di cantare l’inno in solidarietà con le manifestazioni in corso in Iran. Un difficile e forse improbabile ritorno a casa per loro, è uno scontro sociale interno ormai non più occultabile come «teppistiche ed occasionali espressioni di violenza». Ci prova ancora il giornale conservatore Kayhan, considerato uno dei più vicini alla leadership del regime, il giorno dopo la sconfitta ha pubblicato questo titolo: «Iran 2 – Inghilterra, Israele, Sauditi e traditori 6». Sconfitta calcistica e soprattutto offesa politica attribuita ai nemici storici del regime iraniano, come Israele, l’Arabia Saudita e non meglio specificati «traditori». Argomentazione oltre che servile, profondamente stupida.
Le generazioni dell’Iran non parlano la stessa lingua
L’ondata di manifestazioni di donne e giovani sta disorientando la Repubblica Islamica e il suo sistema di potere, che si regge su una classe dirigente incapace di leggere le ragioni profonde delle proteste, l’analisi di Luciana Borsatti su Limes. In un recente articolo del Guardian, un anonimo inquisitore confessa di aver interrogato centinaia di giovani arrestati e di non aver saputo capire nulla di ciò che li spingeva a rischiare pene durissime, sino alla possibile condanna a morte. Che fare? Esercitare prudenza e attendere che la fiammata della rabbia si spenga o usare il pugno di ferro ancor più duramente di quanto fatto finora?
Linea dura benzina sul fuoco della protesta
Secondo Iran Human Rights la linea dura avrebbe già provocato almeno 304 morti tra i manifestanti, fra cui una quarantina di minori, e migliaia di arresti. Cifre cui si aggiungono gli oltre 40 agenti della sicurezza uccisi (spesso in agguati successivi agli scontri o mentre agivano isolati). Ma si tratta ancora di cifre lontane da quel massacro che sembra esservi stato nel novembre 2019, quando a scatenare le proteste era stato un aumento del prezzo della benzina e i morti in meno di due settimane avrebbero raggiunto la quota di 1.500.
La potenza repressiva delle Guardie della rivoluzione
Le Guardie della rivoluzione (Sepah) e le loro milizie di volontari (basiji), non hanno espresso tutta la violenza di cui sono capaci. Dubbio sul come reprimere se ogni vittima porta con sé altra rabbia e altro dolore? Si innescherebbe una catena infinita di nuove proteste non solo nei funerali, ma anche nelle commemorazioni del settimo e quarantesimo giorno del lutto. E la morte di ragazze indifese che diventano figure simbolo della protesta – da Mahsa Amini fino a Nasrin Ghadr, unite dall’origine curda e da giorni di agonia in coma – potrebbe infine mobilitare anche le generazioni più adulte o quella maggioranza finora silenziosa.
Il sistema si interroga ma non si pente
I ragazzi delle proteste non traditori al servizio della Cia
Le ragazze contro il velo, e i desideri di un’intera generazione. «I manifestanti di oggi stupiscono per il coraggio e la fantasia di certe azioni (come far cadere il turbante ai religiosi), ma vogliono solo la fine della dittatura», la conclusione di Luciana Borsatti, «Non hanno una massa critica sufficiente per mettere davvero in pericolo il sistema». Ancora occasionale il sostegno dei lavoratori e l’assenza, al momento, di una leadership capace di elaborare una strategia per il presente e per il futuro. Oppure dovrebbero accettare, le interferenze del “nemico esterno”, cioè quell’alleanza tra Israele, Usa e Arabia Saudita nella consueta narrativa del complotto sostenuta del regime.
Separatismi nazionali e religiosi interni
Presenti e più forti del previsto le tentazioni di separatismo in alcune regioni, dal Kurdistan al Sistan e Balucistan, dove l’intreccio delle proteste nazionali con il caso di una ragazza violentata da un funzionario di polizia ha fatto registrare il maggior numero di morti. E sono proprio i timori del complotto e del separatismo ad aver indotto ad attaccare con missili e droni gruppi di dissidenti curdo-iraniani in territorio iracheno. I curdi e i baluci, insieme ad arabi e turchi, che nel loro insieme compongono circa la metà della popolazione dell’Iran. E i primi due gruppi in particolare, dove domina la componente religiosa minoritaria sunnita, lamentano una marginalità economica e sociale di cui sarebbero responsabili proprio le politiche della Repubblica Islamica.
In più l’allarme suscitato dall’attacco dell’ex Isis del 26 ottobre a Shiraz, nel santuario di Shah Cheragh, dove sono morti una quindicina di fedeli. Un episodio che – al di là dei complottisti per i quali si tratterebbe di un atto orchestrato da agenti del governo iraniano – potrebbe concorrere a un nuovo e definitivo giro di vite contro i manifestanti.
Di Ennio Remondino, dalla Reazione di
23 Novembre 2022