DI VIRGINIA MURRU
E non sarà l’ultimo intervento, destinato ad aumentare il costo del denaro nei 19 Paese dell’area euro. Dopo quattro rialzi dei tassi, strategia iniziata a luglio con un aumento dello 0,5%, diventata poi più incisiva a settembre con un incremento dello 0,75%, e idem a novembre, ora il Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea li ha aumentati di mezzo punto, quale terapia d’urto contro un’inflazione galoppante.
Inflazione che continua la sua ascesa nonostante i continui tentativi di tenerla sotto controllo, fino a raggiungere la soglia del 2% (o inferiore), limite stabilito per garantire un equilibrio accettabile per la stabilità dei prezzi.
In totale l’aumento dei tassi è arrivato al 2,50%.
Ma più severa è stata la Bank of England, con un aumento totale pari al 3,50%.
E tuttavia meno severa della Fed, che ha in qualche modo dato l’esempio quale capo fila, con interventi consistenti, l’ultimo ieri dello 0,50%. Il fine delle Banche Centrali, con l’economia globale che marcia contro la crescita, e l’inflazione che segue un trend in costante salita, è proprio quello di tirare il freno a mano su questo dato macro che persevera e non accusa i colpi di queste misure straordinarie.
Per la Fed, dopo l’ultima decisione del FOMC (ossia Federal Open Market Committee), siamo al 4,25-4,50%, da 15 anni il livello più alto, ovvero dal 2007. Ma per la Banca Centrale degli Usa siamo al settimo aumento dei tassi consecutivo.
Quest’anno è stata una dura battaglia intrapresa per il solito fine, ossia quello di lottare contro il fenomeno inflattivo in atto. Da circa 22 anni la Fed non decideva aumenti dei tassi che andassero oltre lo 0,25%, ma non si sono chiaramente presentate emergenze di questa portata, associate ad una crisi economica globale, scatenata da quella energetica e da fattori geopolitici legati al conflitto in corso in Ucraina.
Le previsioni dei Governatori delle Banche Centrali sono orientati verso il rigore anche per il 2023, ormai alle porte, non ci sono migliori auspici nella politica economica e monetaria dell’Occidente nel breve periodo: finché la guerra scatenata dalla Russia non arriverà ad una soluzione, continuerà a destabilizzare i fondamentali dell’economia globale.
La Bce mira con la sua politica monetaria a ridurre la disponibilità di denaro, sempre con l’obiettivo di controllare l’andamento dell’inflazione. Oggi si è svolta a Francoforte la conferenza stampa, nel corso della quale Christine Lagarde ha sottolineato che i tassi d’interesse dovranno ancora salire in ‘misura significativa’ e a ritmo costante, al fine di ottenere livelli restrittivi tali da condurre l’inflazione nel suo ideale ‘recinto’, quello del 2% nel medio termine.
“Al momento, la nostra politica monetaria è ben recepita in tutte l’area euro”. Così si è espressa la presidente della Bce, Lagarde – in seguito ad una delle domande rivoltele dai giornalisti presenti alla conferenza stampa – e che si riferiva al possibile utilizzo del Tpi (Transmission Protection Instrument).
Il Tpi è lo scudo anti-spread varato dalla Bce verso la metà del corrente anno, e si prefigge il fine di bypassare eventuali attacchi speculativi ai titoli di Stato, a danno dei Paesi più esposti e fragili.
Al riguardo la Lagarde ha precisato che al momento non c’è necessità di utilizzare il Tpi, ma resta comunque nella cassetta degli attrezzi della Bce.
La presidente ha anche reso noto di avere avviato il ‘quantitative tightening’, che è il processo attraverso il quale la Banca Centrale Europea comincerà a liberarsi dei bond acquistati, il cui inizio è previsto per marzo prossimo.
In Eurozona, con l’ultimo rialzo dei tassi siamo ormai al massimo dal 2008, e intanto a pagarne le spese saranno famiglie e imprese, con i mutui a tasso variabile che saranno seriamente penalizzati. Si calcola che, per un mutuo variabile medio, la rata mensile è aumentata di 180 euro, dallo scorso luglio.
In Italia lo spread intanto ha reagito volando più alto, a 207 punti base, e portando i rendimenti dei titoli di Stato italiani, i Btp decennali, a superare il 4,05%.
I rendimenti dei titoli di Stato italiani superano pertanto gli equivalenti greci su tutte le scadenze. L’Italia, in zona euro, non è tuttavia l’unica a soffrire per la crisi energetica e le implicazioni in tutti i settori economici.
In seguito agli annunci della Bce, e della sua politica monetaria, i mercati hanno puntato l’attenzione al debito pubblico italiano, che risulta essere al momento il più a rischio, anche rispetto a quello della Grecia, secondo la curva dei rendimenti. I nostri Btp decennali sono in crescita di circa 20 punti base, mentre l’equivalente greco solo di 5 punti.
Di fronte agli sconvolgimenti geopolitici, e per conseguenza anche economici, l’Italia resta un Paese vulnerabile, costretto a navigare a vista con un’economia che perde solidità, allorché vengono meno i presupposti per la sua crescita e sussistenza, basate sulle certezze delle fonti energetiche e produttive, su un solido equilibrio import-export. Tutti fattori messi a durissima prova soprattutto per via delle conseguenze del conflitto in atto in Ucraina.