DI ALFREDO FACCHINI
.
Il 20 gennaio del 1927, con un decreto legge, Benito Mussolini, taglia con la mannaia i salari delle donne riducendoli della metà a parità di mansione rispetto a quello dell’uomo.
.
.
<<Bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta all’uomo una fortissima virilità fisica e morale>>.
<<Angelo del focolare>>, è questo il ruolo della donna secondo il “mussolinismo”. Madre per vocazione, obbediente e servile. Moglie devota che sostiene il marito e consacra la sua vita alla riproduzione. Guai a <<mascolinizzarla>>.
Giovanni Gentile, ministro della pubblica istruzione e teorico del fascismo, scrive: <<La donna è colei che si dedica interamente agli altri sino a giungere al sacrificio e all’abnegazione di sé; la donna è soprattutto idealmente madre, prima di essere tale naturalmente …>>.
Con il “Regio Decreto 2480” del 9 dicembre 1926 le donne vengono escluse dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei, tolte loro alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie.
Si vieta inoltre di essere nominate dirigenti o presidi di istituto delle scuole medie e secondarie.
Per estirpare “il male” alla radice, vengono raddoppiate le tasse scolastiche alle studentesse, scoraggiando così le famiglie a farle studiare. La donna fascista deve avere solo l’istruzione necessaria perché sia <<un’eccellente madre di famiglia e padrona di casa>>. (Ferdinando Loffredo, sociologo fascista, Politica della Famiglia, Milano 1938)
Giovanni Gentile, nella veste di rettore della “Normale” di Pisa, nel suo discorso inaugurale dell’anno scolastico “1932/33”: <<Nell’Italia fascista occorrono educatori in cui la forza prevalga sulla dolcezza e risoluti a presentare così la scienza come la vita governata da una legge che non si piega ai mezzi termini cari alla pietà dei cuori teneri>>.
Una legge del 1934, “legge 221”, limita le assunzioni femminili, stabilendo sin dai bandi di concorso l’esclusione delle donne o riservando loro pochi posti, mentre un decreto legge del 5 settembre 1938 fissa un limite del 10% all’impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati.
La donna che lavora, per la sociologia del Ventennio, si avvia alla sterilità. Considera la maternità come un ostacolo, <<se sposa difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe>>. (F. Loffredo)
Estromesse dai ruoli dirigenziali e inibite dalla possibilità di carriera, le donne sotto il fascismo finiscono per svolgere per lo più mestieri considerati subalterni, come commesse, stenografe, dattilografe, venditrici di macchine da cucire, o di insegnanti, soprattutto, nella scuola primaria, considerando questo lavoro una estensione della vocazione materna.
Così nasce il “maschilismo di Stato”.
La concezione antifemminista fu parte del dogma fascista, al pari del suo brutale antiliberalismo, razzismo e militarismo.
<<Dicono che Mussolini abbia fatto anche cose buone… anche il mostro di Firenze avrà detto buon giorno a qualcuno qualche volta!>>. (Roberto Benigni)