DI ADOLFO MOLLICHELLI
Mamma, siamo scesi qua perché il binario è spezzato? Sì figliolo, torneremo indietro un giorno o l’altro.
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Quel binario morto, quel muro di mattoni grezzi, freddi. Tutt’intorno baracche con tetti di lamiere. Arrivavano lì i treni della morte, appena varcato il portale in ferro di Auschwitz. Quella scritta Arbeit macht frei tutti potevano vederla e leggerla. Il lavoro rende liberi, il lavoro forzato, spesso senza uno scopo.
Pietre, massi da caricare nelle carriole e scaricare più in là, nell’abbrutimento di un esercizio fisico di resistenza, addosso panni leggeri di tela, a righe. Senza più un nome, un numero scritto sull’avambraccio. Nel freddo terribile della campagna polacca, un tozzo di pane in una brodaglia acquosa, una parvenza di calore sui giacigli a castello, ammassati come bestie che vanno al macello.
Se questi erano uomini. Se queste erano donne. Se questi erano bambini.
Visitare il campo di sterminio di Auschwitz vale più che ascoltare cento, mille litanie che parlano di fratellanza e ti vien voglia di rispedirle al mittente. Senti un freddo addosso, che ti penetra. Entri nelle camere a gas, col soffitto basso e ti senti venir meno. Ti aggiri tra le bacheche dove sono state raccolte protesi, occhiali, oggetti appartenuti ai martiri del nazifascismo. Una volta che hai visto tutto questo non sei più la stessa persona.
Non dimentichiamo. Ricordiamo. Ricordiamo. Ricordiamo. Perché il mondo non conosca mai più simili orrori.