LA SECONDA RESISTENZA

DI ALFREDO FACCHINI

Alfredo Facchini

 

 

Con la cattura o la resa, fate voi, di Matteo Messina Denaro si è tornati a parlare di mafia. Titoli, talk, approfondimenti. In un paese smemorato funziona così. Si va a ondate e poi di nuovo il silenzio.

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Proprio per questo vorrei riportare alla luce un capitolo orribile della nostra Storia. La trama di una mattanza: quellla dei sindacalisti trucidati dalla mafia nell’immediato dopoguerra. Una scia di sangue impressionante che ha visto cadere oltre 40 rappresentanti dei lavoratori dal 1944 al 1955.
Alcuni nomi: Andrea Raia, Casteldaccia 1944, Nicolò Azoti, Baucina 1944, Accursio Miraglia, Sciacca 1947, Epifanio Li Puma, Petralia Sottana, 1948, Salvatore Carnevale, Sciara, 1955.
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Gaetano Porcasi – Pittore antimafia – Siciliani giovani
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In un altro paese non sarebbero morti.
In un altro paese si sarebbe fatta almeno Giustizia. La storia della mafia, è anche storia di processi mancati, una sfilza di delitti archiviati con la formula: <<a carico di ignoti>>. Omicidi impuniti quasi d’ufficio.
E’ la cronaca di magistrati pavidi o collusi e di pochi uomini di legge a predicare nel deserto. E’ il <<contesto>>, per dirla con Leonardo Sciascia.
<<Mai una volta che si sia riusciti ad assicurare un colpevole alla giustizia, come se una mano invisibile fosse sistematicamente intervenuta per cancellare ogni traccia lasciata dagli assassini per impedire che fossero identificati e puniti. Sembrerebbe che gli inquirenti si siano sempre trovati di fronte a delitti perfetti… Ma anche all’osservatore più ingenuo, in presenza di decine e decine di dirigenti sindacali uccisi, sorge il dubbio che forse qualcosa non ha funzionato nella ricerca dei colpevoli>>. (“Le foibe della mafia. Accursio Miraglia e Placido Rizzotto, sindacalisti” di Umberto Ursetta)
La forza della mafia è sempre stata non soltanto dentro la mafia, ma soprattutto fuori.
Grondano ancora vergogna i rapporti di polizia e carabinieri che per decenni hanno escluso il movente mafioso. Persino per l’uccisione di Calogero Caiola (San Giuseppe Jato, 3/11/1947), testimone oculare della strage di Portella della Ginestra, viene esclusa la matrice mafiosa. Oppure si pensi al caso di Pietro Macchiarella, ucciso il 16 gennaio 1947, ricoperto di discredito dalle forze dell’ordine: <<secondo i carabinieri non poteva aver svolto alcuna attività politica perchè era un povero vaccaro analfabeta, alquanto deficiente>>. (L’Unità, Da Portella a Pio La Torre. Il sangue «rosso» della Sicilia, giovedì 24 maggio 2012)
I carabinieri ci rendevano la vita difficile, racconta Giuseppina Zacco, vedova di Pio La Torre: <<Ci prendevano e ci portavano in caserma dove ci trattenevano sei, sette ore. L’accusa era sempre la stessa: comizi non autorizzati. Finché non imparammo a tenere le riunioni solo nelle Camere del Lavoro o nelle case dei contadini>>.
In Sicilia non c’erano fabbriche. L’unica prospettiva per campare era quella di strappare agli agrari della terra da zappare.
Da un lato, c’erano gli agrari arroccati a difesa dei loro feudi, protetti da mafiosi, politici e poliziotti, dall’altro, lato, si accalcava una moltitudine di contadini affamati pronti a tutto pur di lavorare la terra, affiancati da una schiera di coraggiosi sindacalisti.
<<Si lavorava ancora con l’aratro tirato dalle mule o con la vanga, come ai tempi dei romani. La terra bisognava zapparla centimetro per centimetro, e poi c’era la
lontananza: tre o quattro ore al giorno per raggiungere i feudi. Le paghe erano minime e le giornate di lavoro duravano anche 14 ore>>. (L’Unità 10 marzo 1997, “Con Pio ad occupare le terre”, Giuseppina Zacco)
Finita la guerra, l’omicidio che fece più rumore fu senz’altro quello di Placido Rizzotto, assassinato a Corleone da Luciano Liggio e dai suoi sicari il 10 marzo del 1948.
<<E Rizzotto va a far compagnia ai poveri braccianti che festeggiavano il 1 ̊ Maggio a Portella della Ginestra, nel ’47: pochi mesi prima che il sindacalista coraggioso venisse buttato in una foiba>>. (Uccidete Placido Rizzotto, L’Unità 14 dicembre 2006, Alberto Crespi)
Siamo ancora alla mafia contadina, quella antica dei gabellotti, campieri e soprastanti, che opera al servizio della grande proprietà terriera e della vecchia nobiltà e non ancora a quella che traffica in droga e speculazioni edilizie.
E’ utile ricordare, per dare un’idea del clima politico che accompagna quegli anni, che la prima interpellanza parlamentare presentata alla Camera, 27 luglio 1948, è del deputato comunista, Giuseppe Berti, per chiedere al governo De Gasperi quale <<politica si intende condurre per porre fine ai soprusi verificatesi contro il movimento operaio e contadino e ai delitti di mafia che hanno insanguinato la Sicilia>>.
Il ministro dell’Interno, peraltro siciliano, Mario Scelba, risponde negando qualsiasi legame tra “Cosa Nostra” con il governo regionale dell’isola, nonché con la malavita siculo-americana e neppure con il governo nazionale <<giacché la mafia essendo un fenomeno secolare non è imputabile a una determinata politica>>.
<<Si riconosce, in altri termini, che la mafia è un problema ma lo si considera, in quanto secolare, irrisolvibile e si evita così di indicarne le caratteristiche reali, le alleanze sociali, politiche ed economiche che ne favoriscono non soltanto l’esistenza ma l’espansione in Sicilia e fuori>>. (“Mafia politica e affari”, Nicola Tranfaglia)
Nel 1876 fa scalpore un’inchiesta sulla Sicilia, curata da un piemontese e un toscano, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, dove oltre a sottolineare l’estrema povertà delle terre siciliane, lo scandalo del lavoro minorile, l’arroganza dei ceti possidenti, si mette in evidenza la specificità della malavita organizzata: le <<schioppettate>> della mafia.
<<Insorsero allora le anime belle di intellettuali, che sentirono quell’inchiesta come una offesa alla Sicilia. Luigi Capuana scrisse un pamphlet per contestare l’inchiesta dei due studiosi, servendosi della definizione che della mafia dava il grande etnologo Giuseppe Pitrò per il quale la parola mafia era sinonimo di bellezza, di eleganza. Bellezza ed eleganza che opprimeva, sfruttava, uccideva>>. (L’Unità 22 aprile 2007, “Pio La Torre i nostri eroi di Sicilia”)
Il salto di qualità della mafia si consuma in Sicilia, con lo sbarco degli Alleati quando gli americani decidono di servirsi dei mafiosi per allestire lo sbarco del ’43. Interpellando nientemeno che il boss di oltreoceano, Lucky Luciano, che segnalò agli americani i mafiosi residenti nell’isola che avrebbero cooperato al momento dello sbarco. (operazione Husky).
<<Il principale interlocutore di Lucky Luciano nell’isola fu don Calogero Vizzini, il quale aderì al progetto, unendo insieme le forze dei latifondisti affiliati al Mis – e dei mafiosi – a quelle dei servizi segreti americani. “Ufficiale di collegamento” fra Vizzini e Luciano era il criminale Vito Genovese che, dall’America, era ritornato in Italia già nel 1938>>. (La Stampa, 24 Febbraio 2017, “La vera storia dello sbarco in Sicilia”, di Andrea Cionci)
Al crollo del fascismo gli americani non si fecero scrupoli ad insediare in Sicilia <<uomini d’onore>>. I mafiosi al confino fecero ritorno a casa riprendendo a colpi di lupara il dominio dell’isola. Prima come braccio armato dei feudi agrari, per poi trasformarsi <<in dittatura urbana e imprenditoriale, nel grande affare degli appalti dei lavori pubblici, i cui capi, sostenuti di volta in volta dai vari poteri politici, sono dei caporali impostisi solamente col terrore delle armi, spietati nuovi capi-mafia che vengono improvvisamente destituiti e sostituiti, sotto il crepitare non più della lupara, ma dei mitra e del tritolo>>. (L’Unità 19 giugno 1994, “Mafia” di Vincenzo Consolo).
Nel 1957, Leonardo Sciascia, scrive con angosciata lungimiranza: <<Se dal latifondo riuscirà a migrare e a consolidarsi nella città, se riuscirà ad accagliarsi intorno alla burocrazia regionale, se riuscirà ad infiltrarsi nel processo d’industrializzazione dell’isola, ci sarà ancora da parlare, e per molti anni, di questo enorme problema>>.
Tra il 1950 e il 1960 Palermo assomiglia sempre di più alla Chicago degli anni del proibizionismo. Ma il <<Grande Affare, è quello del traffico della droga, e dai susseguenti traffici di armi, riciclaggio di denaro sporco e suo reimpiego in “pulite” imprese commerciali e industriali. Fu questa mafia che, se mai era rimasta chiusa nei confini dell’isola (i rapporti con la mafia americana sono antichi e costanti), per esigenze imprenditoriali, si espande a macchia d’olio nel resto d’Italia, in Europa, si internazionalizza varcando oceani ad ovest e ad est>>. (L’Unità 19 giugno 1994, “Mafia” di Vincenzo Consolo).
Oggi non si ammazzano più i sindacalisti o i “viddani”, i contadini. La violenza d’un tempo è fuori moda. La Mafia si nutre di malapolitica, malaeconomia. Basta e avanza.
L’Antistato è parte integrante dello Stato. La mafia militare fa da scorta ai broker con i colletti bianchi. E’ “Cosa Nostra” del Duemila.
Quello che è certo che non siamo ancora un Paese libero. Se fossimo davvero un Paese minimamente civile, quei sindacalisti, su cui venne rovesciato un volume di fuoco terrificante, andrebbero considerati tutti degli eroi, dei capi partigiani di una “Seconda Resistenza”. Invece sono sepolti nell’oblio, nella dimenticanza.
Smemorati.