DI GIOACCHINO MUSUMECI
La crisi vaticana:
i vescovi tedeschi approvano a larga maggioranza due istanze particolarmente avversate dalle frange conservatrici della Chiesa universale: la benedizione delle coppie omosessuali e la revisione dell’obbligo del celibato sacerdotale.
In questo modo- commenta il Giornale – la chiesa tedesca appare sempre più lontana dal “suo” Papa, quel Joseph Ratzinger che da cardinale ricordò come “la Chiesa di Cristo non è un partito , non è un’associazione , non è un club: la sua struttura profonda e ineliminabile non è democratica ma sacramentale , dunque gerarchica” .
Ho preso in considerazione il Giornale , che considero pessimo come pochi, proprio per l’approccio ottuso alla materia confortato da posizioni laiche il cui senso non va oltre l’accettazione pedissequa di dogmi, calcolati strumenti di controllo.
Cominciamo col dire che su Ratzinger la penso come Umberto Eco, il fu papa emerito è stato altamente sopravvalutato e la rigidità contenuta nel suo pensiero ne è una dimostrazione eclatante. “La chiesa non è un partito”– sosteneva Ratzinger. Eppure nessuno inibì compulsive ingerenze politiche, dettate esclusivamente da ortodossia mistificatrice, ogni qualvolta uno stato laico dovesse progredire nel campo del diritto. Basti ricordare l’ostruzionismo della chiesa all’epoca delle battaglie sull’aborto, oppure i paletti sollevati sul divorzio e l’eutanasia, senza parlare delle dichiarazioni esplicite sulle politiche migratorie all’epoca di Salvini ministro dell’interno. Bisognerebbe essere sinceri e ammettere che la chiesa è un organismo politico che ingerisce in ambiti impropri.
Ancora: “La chiesa non è un’associazione, non è un club”.
Strano, ho sempre pensato che lo fosse dato che sembra esclusiva degli uomini e contiene in sé elementi di maschilismo eccezionali. Le donne, Madonne escluse, sono figure secondarie, evidenza in più per affermare che la chiesa, così com’è oggi, discrimina le donne e mente su piaghe interne pur di mantenere l’immagine fasulla di perfezione da cui “ordinare” non solo sacerdoti ma la gerarchia sociale.
In ultimo il papa sottolineava sulla chiesa: “la sua struttura profonda e ineliminabile non è democratica ma sacramentale , dunque gerarchica”.
Anche questa idea esplicita in pieno lo scarso grado di libertà e il dogmatismo che affliggeva il pensiero di Ratzinger: Non c’è nulla sul piano strutturale di qualsiasi organismo religioso che non si possa cambiare o eliminare. La rigidità assoluta con cui Ratzinger descrive l’organigramma ecclesiastico ha ovvie implicazioni negative: non si può pensare che la chiesa sia immutabile perché così vorrebbe sostituirsi a Dio, il quale se esistesse sarebbe certamente immutabile essendo divino. Ma la chiesa non è Dio e muta il mondo che sfortunatamente più di qualcuno vorrebbe cristallizzare in un ovvio percorso di maturazione.
Ciò che non si dovrebbe eliminare mai è la capacità di intravvedere margini di cambiamento, le fondamenta dei ponti tra chiesa e cittadini, percorsi comuni che non si reggano sul senso di colpa alimentato da dogmi che hanno trasformato la chiesa in quella associazione esclusiva che marginalizza i diversi anche al suo interno, contribuendo così a trasmettere un immagine di sé particolarmente falsa.
Il tutto con l’aggravante che la chiesa così com’è è una sorta di società per azioni i cui vertici mostrano sfacciatamente l’opulenza contenuta nelle scarpe di Prada o negli anelli i cui smeraldi o rubini esagerati accecano.
Cui prodest Ratzinger, questo è forse immutabile o giusto? Direi di no.
La verità è che la Chiesa è un organismo binario in cui vertici conservatori mascherano la corruzione con l’insistenza di dogmi e usano letteralmente coloro che si adoprano sinceramente in nome della fede per propagandare l’inesistente perfezione di ciò che Chiesa non è.
Ratzinger, volenti o nolenti, chiuso nella sua bolla pseudofilosofica nulla fece per evolvere l’organismo di cui fu a capo e ciò costa l’inutile recalcitranza dei bigotti che potrebbero assistere a un’altra scissione, coerentemente con la congiuntura storica il cui imperativo politico è separare. Ratzinger è il passato da ricordare certamente, ma non da elevare a ineccepibile esempio universale. Invocarlo è l’ennesimo tentativo di bocciatura mediatica del dialogo costruttivo.