ZACHAROVA E KULEBA, UBI MAIOR MINOR CESSAT

DI ANTONELLO TOMANELLI

ANTONELLO TOMANELLI

Il confronto a distanza tra Marjia Zacharova e Dmytro Kuleba finisce come non poteva non finire: l’umiliazione del ministro ucraino. Del resto, cosa ci si può aspettare dal figlio di papà Kuleba, che sta pedissequamente ripercorrendo la carriera del padre, prima ambasciatore e poi ministro degli Esteri nel 2002, in un Paese dove la raccomandazione è il presupposto di qualsiasi rapporto di pubblico impiego.
Kuleba aveva duramente criticato quegli italiani che spingono per un negoziato di pace che preveda la cessione di alcuni territori occupati dai Russi. «Gli italiani sarebbero favorevoli a cedere l’Alto Adige?», aveva chiesto mantenendo una faccia incredibilmente seria.
Non c’è da meravigliarsi se qualcuno arriva a dire cose del genere, soprattutto quando si chiama Kuleba. Vanta un phd in diritto internazionale. Ma non gli è servito a molto, visto che è arrivato a dire che le esecuzioni sommarie dei prigionieri russi ad opera dei soldati ucraini non sono contro il diritto internazionale, dimostrando così di non conoscere le Convenzioni di Ginevra.
E Marjia Zacharova, una delle più grandi comunicatrici al mondo, un tipo del genere se lo mangia per colazione: «È un peccato che Kuleba non precisi che lo Stato italiano non ha mai mandato carri armati in Alto Adige né espulso i loro abitanti da quelle terre».
In realtà, avremmo anche potuto assistere a scene del genere a Bolzano e dintorni se l’Italia non avesse scelto la via diplomatica, che ha garantito all’Alto Adige prosperità e benessere. Diversi miliardi di Euro ogni anno nelle casse delle province autonome fin dai tempi di De Gasperi. Minoranza linguistica trattata alla stregua di maggioranza: nella pubblica amministrazione alto atesina ai germanofoni sono riservati i due terzi dei posti. Incentivi per acquistare la prima casa che non hanno eguali in Europa. Disoccupazione pressoché inesistente. Welfare avanzatissimo. E chi vorrebbe la secessione, in un simile Eden?
Nessun soldo da Kiev per sistemare le strade del Donbass dissestate dal quotidiano passaggio dei carri armati ucraini, accompagnamento nei locali della polizia per chi veniva sorpreso in pubblico a parlare il russo, posti di blocco istituiti per puro

divertimento da quei soldati ucraini, spesso ubriachi, desiderosi di incrociare i giovani russofoni che tornavano dalla discoteca, con preferenza per le coppie. Discriminazione degli studenti russofoni fin dalle scuole elementari. Crimea spesso e volentieri lasciata senz’acqua, e per questo irrisa sui palcoscenici dalle battute di Zelensky quando faceva il comico di professione. E poi i bombardamenti sui civili. E chi non vorrebbe la secessione, in un simile inferno?
Kuleba non sa quel che dice. Come quando, sempre mantenendo una faccia seria, che è comunque un grande merito, esorta gli imprenditori italiani ad investire in Ucraina non appena la guerra sarà finita. Bisognerebbe vedere la faccia che fanno, nell’udire questo invito, quegli imprenditori italiani che hanno provato a fare business nella terra di Kuleba ben prima della guerra: impossibilità di mantenere prezzi concorrenziali per i continui esborsi concussivi e il pagamento di altissimi dazi imposti alle merci provenienti dall’estero, come da specifiche norme emanate dalla Rada su gentile richiesta degli oligarchi ucraini.
Questa è L’Ucraina. E questo è Kuleba.