DI NICOLETTA AGOSTINO
Se una donna, un’operaia poco più che ventenne, cade sul lavoro, schiacciata da una macchina tessile in una fabbrica, per la stampa muore una “giovane mamma”, un “bellissimo angelo dai capelli biondi”, una “ragazza madre”, “una ventenne con una bambina, che sognava il mondo dello spettacolo”.
Quando un’altra donna viene ammazzata e di lavoro non fa l’operaia, ma la sex worker, allora muore una “pornostar” [è sempre il solito sante o puttane]. Che abbia un figlio non è più la prima cosa da raccontare, dei suoi sogni non ci importa più di tanto, di com’è morta forse nemmeno. Chi l’ha uccisa ha un nome e un cognome, una identità che lo rende umano, lei è “la” pornostar.
Ieri decine di titoli scritti tutti in maniera identica: “Chi è la pornostar trovata in un dirupo”, “diva del porno fatta a pezzi da un vicino”, “uomo arrestato per aver ucciso la pornostar Charlotte”. Con un linguaggio di prossimità, come se quella donna appartenesse un po’ a tutti, come se fosse un bene comune alla portata di tutti, “la pornostar Charlotte”, anche se fino a ieri era praticamente una sconosciuta.
Nella gran parte dei titoli il suo lavoro viene prima del nome, e in molti il cognome non compare nemmeno. Nel pomeriggio, quando un comico fa una battuta che gli costa la sospensione da un noto programma, se ne dà notizia con il nome e il cognome di lui: “Pietro Diomede cacciato per una battuta su una pornodiva”.
Ancora una volta lei è cancellata. Una doppia invisibilizzazione.
La prospettiva e lo sguardo con cui si racconta un femminicidio, cambiano a seconda del giudizio che chi scrive ha introiettato dentro di sé. Perché se una ventenne cade dentro una fabbrica, la notizia dovrebbe essere “è morta un’operaia”, quanti figli avesse e quali sogni di autorealizzazione coltivasse dovrebbero venire in secondo piano. E invece è prima una mamma e un angelo del focolare, dedita al fidanzato, poi come informazione aggiuntiva, una lavoratrice. Se però il lavoro in questione è un altro, e prevede l’utilizzo del proprio corpo come fonte di guadagno, allora le cose cambiano e la notizia diventa: “è morta una pornostar”. Anche se non è morta su un set televisivo, mentre faceva il suo lavoro, l’elemento a cui si deve dare risato è che si guadagnasse da vivere usando il suo corpo.
Il modo in cui si racconta la morte di una donna è un trattato preciso e puntuale del sessismo introiettato nella nostra lingua.
Di come il linguaggio usato dalla stampa, quando si tratta di donne, sia usato principalmente non per raccontare un fatto di cronaca nera, ma per costruire nell’opinione pubblica un giudizio o un pregiudizio sulla vittima e alimentare lo stigma sociale che portano con sé alcune scelte di autodeterminazione.
La carrellata di foto ammiccanti a corredo della notizia, sono un modo per insinuare subdolamente che se si fa quel lavoro si è prima un corpo, un oggetto, dunque può capitare che qualcuno, il tuo fidanzato o il tuo vicino si senta autorizzato a farti a pezzi e a gettarti in un dirupo. Perché il tuo corpo è a portata di tutti.
E infatti Libero ieri ne dava notizia con una foto (forse di scena) in cui Carol Maltesi era praticamente nuda. Questa pratica si chiama slut-shaming, una modalità odiosa e infima, non sempre semplice da decodificare, di giudicare e colpevolizzare una vittima, per l’uso che fa (o faceva) del suo corpo.
Solo un interrogativo resta: nelle redazioni quando si inizierà a studiare come si racconta di una donna ammazzata per mano di un uomo? Perché siamo davvero stanche di questo schifo.
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