DI MARIO PIAZZA
La necessaria premessa a un discorso lungo e complicato è che considero il bisogno di spedire nel futuro i propri geni un istinto primitivo ed egoistico mentre invece comprendo benissimo la genitorialità, la gioia di dare amore e di veder crescere un piccolino, a prescindere dai proprietari dello spermatozoo e dell’ovocito che l’hanno generato.
Un problema alla volta e il primo da risolvere è linguistico.
Se parliamo di “utero in affitto” diamo per scontata una contropartita economica che invece potrebbe benissimo non esserci.
Anche peggiore è il termine “maternità surrogata” perché surrogare significa sostituire un ingrediente con un altro di qualità inferiore, e le cronache ci dicono che non esiste alcun nesso tra la gestazione e l’amore genitoriale che ne scaturirà.
GPA, gestazione per altri, è il termine più adatto e cui occorre aggiungere l’aggettivo “solidaristica” per escludere l’idea di un pagamento, una specie di prostituzione dove in vendita viene messo l’utero invece della vagina o di altri orifizi.
Se il problema è il compenso economico di quello dovremo parlare e non della pratica in sé, e al falso linguistico viene aggiunto quello storico perché al contrario di quanto vorrebbero farci credere al solo scopo di criminalizzare gli omosessuali, in 8 casi su 10 le coppie che ricorrono a questa pratica sono composte dai tanto celebrati “papà e mammà”.
Non so quante altre puntate serviranno per comprendere la questione e non so neppure se avrò voglia di scriverle, ma chiarire questo punto mi pare il minimo per non dire troppe stupidaggini.