DI ANTONELLO TOMANELLI
Già un mese fa Novak Djokovic entrava nella leggenda vincendo a Parigi il Roland Garros, segnando il record assoluto di tornei slam vinti da un uomo, ben 23. Certamente aveva in testa il mitico Grande Slam, che viene assegnato al tennista che vince in un anno tutti i quattro Major (Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e US Open), già negatogli in extremis dal russo Daniil Medvedev quando lo battè in finale allo US Open nel settembre 2021. Finora, tra gli uomini, l’unico a portarsi a casa il Grande Slam è stato l’australiano Rod Laver nel 1969.
Ma a Wimbledon, Djokovic ha trovato in finale lo spagnolo Carlos Alcaraz. La proverbiale tenuta fisica e mentale del serbo ha ceduto alla distanza, dopo cinque set, contro quel ventenne che non ha paura di nulla, e che pare un incrocio tra un Abrams e un Sarmat.
Djokovic, nonostante i suoi 36 anni sul groppone, è attualmente l’unico al mondo a poter dare filo da torcere allo spagnolo. Ma con il suo ritiro, che purtroppo, per evidenti ragioni anagrafiche, non tarderà più di tanto, per Alcaraz si aprirà un’autostrada. Nessuno pare poterlo soltanto infastidire.
Djokovic ha comunque il tempo per consolidare la sua posizione di gigante. Ancora un altro slam ed eguaglia il record assoluto di Margaret Smith Court, l’australiana che tra il 1960 e il 1973 ne vinse 24. Per ora, rimane in compagnia di un mostro sacro come Serena Williams.
Ma sulla sua strada troverà sempre Carlos Alcaraz. Quindi sarà dura, molto dura. La premiazione nel Centre Court di Wimbledon è stata una sorta di passaggio di consegne.
L’impressione di vedere avvicinarsi il tramonto di una stella è piuttosto netta. Ma il mito sopravviverà. Rimarranno indelebili soprattutto il coraggio e la determinazione nel difendere le sue scelte. «Rivendico la libertà di ognuno di scegliere cosa immettere nel proprio corpo», commentò quando gli si chiedeva perché non si fosse vaccinato. Ha pagato quella scelta con l’esclusione da una miriade di tornei, tra cui l’Australian Open e lo US Open del 2022.
Viene in mente un altro gigante dello sport, Cassius Clay, quando nell’aprile 1967, già campione dei pesi massimi, la Commissione pugilistica dello Stato di New York gli ritirò la licenza da pugile per essersi rifiutato di partire per il Vietnam. Gli chiesero se ne valesse la pena. «Non potrei sparare a qualcuno che non mi ha mai chiamato sporco negro», fu la risposta.