DI ENNIO REMONDINO
Costretti a parlare di guerra, come se il mondo fosse un unico e immenso campo di battaglia. Forse siamo noi giornalisti a creare questa mostruosità, o forse è la mai superata regola che a fare notizia sono le cose brutte e non le storie edificanti.
Del resto, le guerre seguono la vita dell’uomo dalle origini. A dar retta alla Genesi, con Caino che ammazzando il fratello, scatena la prima guerra planetaria. Tutto relativo, ovviamente. Come il numero delle guerre che qualche matto, con calcolatrice e tempo da perdere, ha tirato fuori dai serissimi compendi storici dell’università di Cambridge: 27.500 guerre da quando l’uomo ha cominciato a raccontarsi con la scrittura, 350 milioni di morti, 5 guerre e mezza e 65.000 morti l’anno. Poi, negli ultimi 100 anni, si va a crescere. Cento milioni di morti per fare cifra tonda. Numeri incerti, che danno comunque la dimensione del fenomeno.
Sulle bugie di guerra, quelle letterarie e quelle meno nobili di certi telegiornali, quindici anni fa ho scritto un libro di cui -non tremate- vi propongo occasionali assaggi domenicali.
Il narratore e il Principe
La guerra, nei tempi televisivi, è ormai una semplice categoria di notizia a cui dare o negare spazio. Da qualche parte c’è sempre, ma le notizie dal fronte sono rare. In genere riguardano la guerra più vicina per geografia o interesse politico e polemica interna. Praticamente il seguito del pastone politico che sembra sia essenziale. Guerra parlata di solito, quando episodi particolarmente crudeli obbligano all’esecrazione morale di circostanza, senza troppo insistere sui fatti. Di guerra combattuta se ne vede poca, forse per non turbare le nostre sensibili coscienze o, più probabile, per non disturbare il manovratore. Chiunque esso sia. Le immagini a volte sono in grado di smentire i racconti di comodo. La guerra come seguito della politica, diceva Clausewitz, e la politica a interferire sull’informazione anche di guerra. C’è la guerra da enfatizzare e quella da nascondere, la guerra di maggioranza e quella di opposizione. La guerra legata agli interessi nazionali, che fa ascolto, e quella dei poveri cristi, riservata ai giornaletti missionari. La dose di guerra consentita noi adulti la consumiamo a colazione sfogliando il quotidiano e, a pranzo e cena, col telegiornale. I giovani, più inappetenti di stampa e Tg, le guerre spesso le ignorano. E se le conoscono fortunatamente le contestano.
Noi i sempre buoni
Tutti ci parlano di guerra, ma a ben vedere, nessuno ce la spiega. Sappiamo che esistono i buoni di cui noi, ovviamente, facciamo sempre parte. Dei cattivi in genere sappiamo che sono tali perché non sono dalla nostra parte. Ci sono ripetute le nostre buone ragioni e in genere omesse o manipolate quelle degli altri. Le guerre televisive sono come la politica in alcuni Tg: la par condicio non esiste. Del resto la guerra è un totale equivoco che macina persino le parole e il loro significato comune. La guerra che non si chiama guerra ma, più elegantemente, conflitto, azione armata, operazione antiterrorismo, difesa preventiva. I morti ammazzati diventano pudicamente vittime e le distruzioni, con linguaggio da azzeccagarbugli, sono chiamate effetti collaterali. Come chiamare slip o boxer le nostre tradizionali mutande. Di mutande, con cui coprire le vergogne della guerra, vedremo ne occorrono molte.
Le parole come proiettili
Le parole in guerra si muovono veloci come proiettili e con la stessa rapidità cambiano forma. Teoria personale che offro alla vostra attenzione, prendendo spunto dallo scrittore Andrea Camilleri, quello del commissario Montalbano. Le parole in guerra, ho scoperto, prendono la forma dell’acqua. Che forma ha l’acqua? Quella del contenitore in cui la versi. Per la guerra patriottica occorrono parole di forte sentimento nazionale. Per la guerra umanitaria, parole solidali e missionarie. Nella guerra per la democrazia volano parole d’alta idealità politica. Parole appunto. Con la forma dell’acqua.
Racconti strabici
Quando le bombe delle mie guerre volavano su Baghdad, su Kabul, su Tiro o su Belgrado, quegli ordigni, raccontati prima dagli studi televisivi di Roma, erano il prodotto di una sorta di gioco diplomatico un po’ violento, da descrivere con parole politicamente prudenti, che non turbassero troppo i telespettatori. E soprattutto chi la guerra la sosteneva. Avvicinandosi al bersaglio quelle stesse bombe, in volo, già cambiano natura. Il “conflitto” del dire patinato del mezzobusto da studio, diventa “guerra” nel racconto concitato dell’inviato sul campo di battaglia. Ho sempre avuto il sospetto che bombe e missili siano come noi giornalisti: partono sempre intelligenti ma, avvicinandosi al bersaglio e alla notizia, possono diventare irrimediabilmente cretini. Anche molti strateghi da alto comando e da studio televisivo, politici di retrovia e narratori richiamati dalla riserva, visti da lontano possono sembrare intelligenti. Se stai dentro la guerra e li ascolti, ti accorgi subito di quanto, in realtà, sparino parole a vuoto senza neanche prendere la mira.
Quando l’ammazzarsi diventa guerra?
Attorno alla parola guerra ruota il più micidiale equivoco dell’umanità. Che cos’è una guerra? Tutti credono di saperlo, ma sarà poi vero? Quand’è che lo scontro tra gruppi armati ha diritto al titolo ufficiale di guerra? Difficile stabilirlo. Neppure il vocabolario ci aiuta. Sono andato a controllare. «Guerra: scontro armato fra eserciti di due o più Stati». Sarebbero dunque soltanto gli Stati a poter fare le guerre. Fosse per il Devoto Oli e lo Zingarelli, l’ultima guerra vera combattuta nel mondo sarebbe quella mondiale, la seconda.
La guerra ormai non si dichiara. Si fa
Dal 1945 in poi nessuno Stato ha mai dichiarato ufficialmente guerra a un altro Stato, eppure da allora abbiamo avuto centinaia di guerre. Le ho contate e sono state quasi 200. Guerre che, stando al vocabolario, non possono essere chiamate guerre, ma che hanno prodotto decine di milioni di morti, feriti, mutilati e profughi. Fosse mai che anche le vittime di quelle guerre non guerre siano morti non morti? Stando sempre al vocabolario, quella del Vietnam per esempio non è stata ufficialmente una guerra. Come non è stata guerra l’intervento militare della Coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, nel 1991, contro l’Iraq che aveva invaso il Kuwait, o i bombardamenti della Nato sulla Jugoslavia, nel 1999, o l’intervento americano del 2001-2002 in Afghanistan, e quello anglo-americano nuovamente in Iraq nel 2003. Neanche tra israeliani e palestinesi è mai esistita una guerra, visto che questi ultimi nemmeno possiedono uno Stato contro cui possa essere dichiarata.
Contabilità ciniche
Se quelle guerre non si possono chiamare guerre, un trucco deve esserci. La mia impressione è che ci sia qualcuno che fa giochi di prestigio con le parole. O peggio, con i numeri. Secondo due dotti professori americani, David Singer e Melvin Small, oggi si può parlare di guerra se ci sono almeno 1000 soldati impegnati e sono stati prodotti almeno 1000 morti. A 999 è una quasi guerra? Da reporter, resto in bilico fra numeri e parole. Con la scusa di trovare sinonimi alla parola guerra, io stesso ho scritto di conflitto, di intervento militare, di bombardamenti, di azione armata dell’uno contro l’altro e, su quelle guerre, ho già propinato una versione tutta mia. La parola guerra, nella sua brevità, la percepisci come fatto assoluto, che non puoi ingentilire con un aggettivo. Conflitto è un sinonimo che evoca invece un ammazzarsi quasi con buona educazione, da torneo medioevale tra nobili cavalieri. Intervento militare, bombardamenti, azione armata spostano semplicemente l’attenzione sull’aspetto tecnico della guerra, utile a ridurla a war game per strateghi da salotto televisivo.
Gara per il titolo
Resta quindi il problema di cosa sia realmente una guerra. Che differenza passa fra un qualsiasi episodio di violenza, per esempio l’assalto di predoni a un villaggio o una nave corsara che attacca una nave mercantile, e una guerra a pieno titolo? In ambedue i casi c’è l’uso della forza, delle armi. Ci sono morti, feriti e distruzioni. Le guerre ufficiali e quelle che non hanno diritto al titolo realizzano in ogni caso sempre lo stesso prodotto: rovine e massacri. A fare la differenza non è neppure il numero della gente che si scontra e si ammazza. Dall’antichità sappiamo di guerre combattute da piccolissimi eserciti o affidate alla sfida di pochi campioni (Orazi e Curiazi ai tempi degli antichi romani, o la disfida di Barletta nel 1503) e sappiamo anche di assalti di predoni e banditi con migliaia di protagonisti. La differenza fra una guerra ufficiale e la violenza di bande armate non è dunque legata alle dimensioni e ai numeri.
Sempre di preda
Saranno le ragioni dell’uso della forza a fare la differenza? Il predone cerca il bottino mentre gli eserciti cosa cercano? Le legioni romane, e prima di loro gli eserciti greci o quelli persiani o egiziani o ittiti, impongono ai popoli vinti le proprie regole, la propria lingua e, spesso, anche i propri dei. In cambio prendono terre, ricchezze e uomini come schiavi. Oggi si prende petrolio e si esporta democrazia. Se vai a guardare bene e con un po’ di sana malizia, in fondo in fondo la guerra resta sempre un atto di preda, in grande però. Il trucco, ancora una volta è nell’uso delle parole e del racconto: la comunicazione, si dice oggi.
Banditi ed eserciti
L’atto di preda, l’assalto dei banditi, dei pirati, la rapina sono considerate azioni da nascondere e da condannare: episodi da cronaca nera. La violenza meglio organizzata, quella che mette in riga i suoi protagonisti armati dietro una bandiera, una parola d’ordine, una divisa, è considerata un fatto da trasmettere agli altri, dramma di cui scrivere e attraverso cui fare la Storia. La cronaca finisce sul giornale e il giorno dopo incarta l’insalata; la Storia è scritta sui libri e spesso incarta la verità. Una guerra che non meriti un qualsiasi tipo di racconto finisce per non esistere.
Dalle caverne in poi
Immaginiamo i nostri progenitori delle caverne che le guerre le combattono a colpi di clava e sassi. Una tribù vince sull’altra e ottiene il controllo della migliore zona di caccia, ma è il racconto della sua vittoria e della sua potenza a tenere in seguito lontane altre tribù dai suoi territori. Il racconto della sua potenza incute timore e vale quanto altre guerre che altrimenti dovrebbe combattere. La comunicazione orale, di caverna in caverna, di capanna in capanna, crea prima le leggende e poi, attraverso la scrittura, fa la storia. Attorno al racconto delle guerre si formano i regni e gli imperi. La guerra senza comunicazione, insomma, è violenza selvaggia e poco produttiva. Lo hanno capito talmente bene i nostri antenati, da tramandarci attraverso i millenni soltanto storie di guerre e di conquiste.
“Omero è forse il più studiato reporter di guerra al mondo. Narratore da redazione, ovviamente, di quelli che mettono in bella scrittura le guerre combattute e vissute da altri. Cantore al servizio del principe e del vincitore”.
Articolo di Ennio Remondino, dalla redazione di
20 Agosto 2023