DI ENZO PALIOTTI
“Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistono ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.
Sono le parole che chiudono la sentenza del processo relativo all’assassinio del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, della giovane moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo.
Frasi che potrebbero essere replicate e lette nelle tante sentenze su tutte le “stragi di Stato” che a distanza di tanti anni ci hanno fatto conoscere gli autori materiali “proteggendo”, in ogni stagione politica, i mandanti.
Taluni potranno dire perché mai rivangare la questione a istanza di tanti anni. E’ semplice, per non gettare nell’oblio il lavoro di un uomo come il Generale Dalla Chiesa, la sua figura di “vero servitore dello Stato”, e per rispondere a quei taluni che ipocritamente celebrano queste figure importanti della storia repubblicana, che cercare la verità è il modo migliore per celebrare chi si è immolato per noi, per la nostra sicurezza, per la legalità, per lo Stato. Questo vale per il Generale, questo vale anche per tutti gli altri che hanno subito lo stesso destino.
Sono passati 41 anni da quella sera in Via Carini ed i sospetti, ormai nemmeno più tanto campati in aria, stentano a diventare certezze con nomi e cognomi. Ma non bisogna demordere, sulla scorta di quanto sta accadendo intorno alla questione del DC 9 Itavia abbattuto ad Ustica nel 1980, è legittimo e giusto sperare che qualcuno finalmente parli e faccia luce anche su quel 3 Settembre 1982 a Palermo in Via Carini, restituendo la speranza a chi aveva esposto un cartello sul luogo del delitto con la scritta: «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti.»
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