DI MARINO BARTOLETTI
Voglio ricordare i 100 anni di Sergio Zavoli.
Perché gli ho voluto bene, perché è stato un Padre di questa Patria, perché è stato in assoluto uno dei più grandi divulgatori italiani, perché è stato uno dei più amati figli della mia stessa terra, perché gli debbo tanto: anche quello che non sa
Quando qualcuno – succede ancora – mi dice o mi scrive (anche su FB) “che ne vuole sapere lei che è soltanto un giornalista sportivo?”, mi consolo (compatendo il mio interlocutore) col fatto che anche Zavoli è stato ed è rimasto sempre nel cuore un narratore delle cose dello sport (esordì in televisione con le memorabili telecronache delle Olimpiadi di Roma).
Negli ultimi tempi della sua lunghissima vita si era emarginato un po’: lo addolorava che gli altri potessero pensare che la sua immagine non fosse più così “perfetta”. E sbagliava! Perché non aveva perso un grammo né del fascino (declinato in tutti i suoi aspetti, estetici, umani e culturali), né della capacità di saper ammaliare con le sue parole, oltre che con la sua ruvida eppure pacata saggezza.
Fra i tanti che credono di aver “inventato” il giornalismo (o la televisione), lui poteva dire – e non lo ha mai detto! – di averlo fatto veramente: passando dal “pop” più magistrale del suo irraggiungibile “Processo alla Tappa” (una rete da pesca nel costume stesso dell’Italia) fino ai documentari storici “Nascita di una Dittatura” e “Notte della Repubblica”, autentici capolavori didattici da cui nessun corso scolastico di un Paese “normale” potrebbe prescindere.
Nel mezzo, una vita. La sua vita! Anzi, le sue venti vite (da Presidente della Rai, a Senatore della Repubblica). E le sue selezionatissime amicizie. Insostituibile quella di Federico Fellini, che aveva due-tre anni più di lui, che aveva assaporato il suo stesso humus prima di andare a costruire la sua (e la nostra) fortuna, col quale aveva una complicità tutta romagnola, fatta di silenzi e di battute taglienti. Una delle volte che lo andai a trovare al settimo piano di Viale Mazzini (“Ma ti rendi conto che mi fanno perdere tempo a fare il Presidente di questa Azienda, quando potrei essere più utile lavorandoci?”), mi fece vedere il famoso telegramma che Fellini gli mandò il giorno della sua nomina a Presidente. C’era solo scritto: “Osta, te”. Intraducibile nelle sue sfumature quasi carsiche di felicità, ammirazione, humor e, forse forse, presa in giro. Più o meno: “Accipicchia, l’hai fatta grossa”. Ora lui e Federico riposano a Rimini l’uno accanto all’altro.
Avevano cominciato insieme nella loro città appena liberata. Sergio si era procurato degli altoparlanti che gracchiavano fra case e spiaggia, chiamando audacemente quell’impresa “Publiphono Radio Mare”. Creò un “palinsesto” fatto di cronache di ogni tipo. Lo ascoltò un dirigente Rai e lo portò a Roma. Non esisteva ancora la parola “start up”: ma il coraggio, l’intelligenza, il talento e il genio per fortuna sì. E lui li aveva tutti.
Il suo italiano era così perfetto e forbito che, quando parlava, sembrava leggesse.
Grazie di tutto Sergio. Ripeto, anche di quello che non sai.