DI ANTONELLO TOMANELLI
La laicità è l’elemento che storicamente ha contraddistinto le organizzazioni palestinesi in lotta contro Israele. La maggior parte di esse si ispirava alla dottrina marxista-leninista. La più rappresentativa era l’Olp, capeggiata da Yasser Arafat, che ha passato buona parte della sua vita ad isolare le teste calde che la costellavano.
Arafat prende le distanze dall’azione condotta da Settembre Nero nei confronti degli atleti israeliani al villaggio olimpico di Monaco 1972. Deplora la strage all’aeroporto di Fiumicino del 1985. Usa tutti i suoi poteri per convincere i dirottatori della Achille Lauro a desistere.
Che Arafat fosse una controparte credibile lo dimostrano i famosi dieci punti del programma scritto dai leader di Al-Fatah già alla fine degli anni ‘70, e che causano la diaspora dei militanti estremisti. Nel programma si auspica la creazione di due Stati, e in quello palestinese «tutti i cittadini devono poter godere degli stessi diritti senza discriminazioni di sesso, di razza e di religione».
Un’eresia, per coloro che propugnano la distruzione dello Stato di Israele e lo sterminio degli ebrei. A partire dalla fine degli anni ’80 i giovani palestinesi che usano le pietre per fronteggiare l’esercito israeliano occupante, incominciano a guardare con simpatia ad organizzazioni come Hamas, i cui capi definiscono l’Olocausto «la più grande delle menzogne», negano l’esistenza delle camere a gas, incoraggiano le letture di personaggi come Roger Garaudy e David Irving e si propongono di «sollevare la bandiera di Allah sopra ogni pollice della Palestina». Vogliono uno Stato islamico.
È naturale che gente del genere veda gli Accordi di Oslo del 1993 come il fumo negli occhi, considerandoli un tradimento del popolo palestinese. Mentre la rabbia cova.
Nel 2004 muore Arafat e alla presidenza della Autorità Nazionale Palestinese, creata proprio dagli accordi di Oslo, gli succede Abu Mazen, un uomo senza nemmeno l’ombra del carisma di Arafat. La successione spiana la strada ai fondamentalisti islamici di Hamas, che vincono le elezioni del 2006 con uno statuto che è un coacervo di deliri e citazioni coraniche, e che si preparano a governare.
E a Gaza decidono di farlo con metodi squisitamente democratici. Per prima cosa prelevano Mohammed Sweyrki, capo della guardia presidenziale palestinese, lo portano sul tetto del più alto edificio di Gaza, gli legano mani e piedi e lo scaraventano giù augurandogli un buon atterraggio. Durante gli scontri con i poliziotti della ANP, girano a bordo di auto e jeep con la scritta «TV».
Saccheggiano le case dei dirigenti dell’ANP. Non risparmiano nemmeno quella del defunto Arafat, dalla quale trafugano di tutto: indumenti, mobili, tappeti, il lavabo della cucina e persino un water. Fanno fuori gli oppositori di Al-Fatha, introducono la Sharia e istituiscono le corti islamiche, quelle che esigono la testimonianza di quattro maschi adulti per provare una violenza sessuale.
Dopo il pogrom in terra israeliana del 7 ottobre scorso, la situazione a Gaza è spaventosa, con le bombe dell’esercito israeliano che non risparmiano nessuno, pur di stanare i miliziani di Hamas, che confidano invano nel groviglio dei loro tunnel. Ed è da stupidi pensare che Israele non avrebbe reagito a quella ferocia con una ferocia ancora maggiore. Ma sono i limiti strutturali di chi professa la Jihad.
Intanto nelle piazze si susseguono manifestazioni di persone che continuano ad ignorare la portata del problema, e a non capire che oggi la piaga dei palestinesi si chiama Hamas. Lo si deduce dalle risposte vacillanti che forniscono sulla sua reale natura, quando hanno la sventura di essere intervistati.
E sui media non va meglio. Quando uno come Luigi De Magistris, un ex magistrato, arriva a fare una figuraccia affermando con la faccia seria di non avere elementi per definire Hamas un’organizzazione terroristica, significa che vuole la condanna dei palestinesi all’eterno dolore. Con persone del genere c’è poco da stare allegri. Sia qui che in Palestina.