DI ANTONELLO TOMANELLI
Se dovessimo descrivere un comportamento omicidiario privo del benché minimo segno di pentimento, basterebbe guardare quel che Filippo Turetta ha combinato a Giulia Cecchettin. L’ha portata in un luogo sperduto, l’ha tramortita a calci e pugni, l’ha caricata in macchina, l’ha finita a coltellate alla gola e alla testa, per poi gettarla in un fetido canalone a una manciata di kilometri dalla diga del Vajont.
Non si è costituito, né si è ucciso. Ha fatto benzina usando banconote sporche del sangue di Giulia ed è fuggito in macchina fino in Germania, dove è stato arrestato. Evidentemente sperava in qualche modo di farla franca.
Tra i due una differenza abissale. Lui geloso, possessivo, la controllava in maniera ossessiva e capillare. Lei lo aveva lasciato qualche mese fa, forse proprio per questo. Lui soffriva e manifestava intenti suicidiari. Lei, decisamente altruista, e dato che in fondo gli voleva bene, gli aveva dato la possibilità di frequentarsi come amici. Pessima idea.
L’ha uccisa pochi giorni prima che lei discutesse la sua tesi di laurea in Ingegneria. Anche lui studiava Ingegneria, ma con risultati non paragonabili a quelli di Giulia. Alcune persone vicine a entrambi suggeriscono che lui l’abbia uccisa proprio per evitare che si laureasse. Forse perché la fine degli studi avrebbe portato Giulia ad allontanarsi dal luogo in cui vivevano. O forse perché quella laurea avrebbe suggellato una disparità intellettuale per lui inaccettabile. Sono molti gli uomini che non perdonano i successi della partner.
Vedremo cosa avrà da dire lui, ammesso che trovi il coraggio di parlare. Molti elementi portano alla premeditazione, aggravante che in un omicidio fa scattare l’ergastolo. Ma il fine pena mai in Italia non esiste. E tra buona condotta, lettere di scuse e ipocriti pentimenti, prima o poi tornerà a passeggiare per strada sotto gli occhi dei familiari che Giulia, suo malgrado, ha lasciato per sempre.