DI ANTONELLO TOMANELLI
Con un Sinner così non si poteva mancare all’appuntamento della Storia, conquistando la coppa Davis contro l’Australia, paese di nobilissime tradizioni tennistiche, ma orfana del talentuosissimo e scocomerato Nick Kyrgios, definito il più forte tennista della sua generazione, lasciato a gozzovigliare in qualche pub di Sidney.
Matteo Arnaldi ha faticato ad imporsi in tre set sul tennista di chiari origini russe Alexei Popyrin, mentre Jannik Sinner ha polverizzato con un eloquente 6-3 6-0 il temibilissimo Alex De Minaur.
Questa è la seconda coppa Davis che l’Italia si porta a casa. La prima, i meno giovani non se la scorderanno mai.
È il dicembre 1976. L’Italia ha già sconfitto nelle semifinali proprio l’Australia del mitico John Newcombe, mentre il Cile del generale Pinochet le semifinali le ha proprio saltate. Avrebbe dovuto disputarle a Mosca contro l’Unione Sovietica. Ma Breznev era stato categorico: non permetterò ad alcuna feccia fascista di mettere piede in URSS. Così, il Cile vola in finale per grazia ricevuta, in attesa degli azzurri capitanati da Nicola Pietrangeli.
Apriti cielo. Galvanizzata dal boicottaggio dei compagni sovietici, la gran parte della sinistra italiana spinge per non giocare contro un paese retto da un’accozzaglia di militari sanguinari, per giunta a casa loro. Panatta e company, invece, vogliono giocare. Le piazze invocano il boicottaggio al grido «Pinochet sanguinario, Panatta milionario», dimenticando le posizioni di sinistra del campione romano. E un attore del calibro di Ugo Tognazzi, dichiaratamente di sinistra, fa notare che se in Cile esportiamo automobili e cinema, per quale motivo non dovremmo esportare un bene di lusso come Panatta.
Ma una lettera di Luis Corvalan, segretario del partito comunista cileno, spedita dalla clandestinità a Enrico Berlinguer, in cui esorta l’Italia a non regalare la coppa a quei criminali, cambia tutto. Il PCI è d’accordo con il governo Andreotti a passare la patata bollente al Coni, che a sua volta la passa alla Federtennis. Che alla fine, ovviamente, prenota il volo per Santiago.
Si gioca al Estadio Nacional de Chile, i cui spalti odorano ancora di sangue. Per la giunta militare la posta in gioco è altissima. Quella coppa va assolutamente conquistata, anche perché bisogna in qualche modo far dimenticare alla gente tutti quei cileni scomparsi nel nulla.
Per il Cile lo spauracchio è rappresentato da Panatta, che pochi mesi prima aveva incantato il mondo vincendo sia gli Internazionali di Roma che il Roland Garros. Pinochet manda un elicottero a volteggiargli sopra come un avvoltoio per buona parte del match contro Patricio Cornejo. Forse nella speranza di intimidirlo, o forse soltanto perché per lui è un lurido comunista. Tutta benzina sprecata, perché Panatta stravince con un netto 6-3 6-1 6-3. E mentre si avvia negli spogliatoi, uno scocomerato cileno gli si avventa contro cercando di rubargli la racchetta.
Cose che evidentemente il romano si lega al dito. Il giorno dopo convince il suo compagno di doppio Paolo Bertolucci ad una mossa che entrerà nella leggenda. In uno stadio gremito e sotto lo sguardo esterrefatto del generale Pinochet, i due si presentano in campo indossando non la tenuta d’ordinanza della nazionale, ma una casacca rossa. Il colore dei fazzoletti che le donne cilene agitano silenziosamente nelle piazze per chiedere alle autorità che fine hanno fatto i loro figli, i loro mariti.
Alla fine la coppia azzurra si impone in quattro set, davanti ad un pubblico sconcertato.
Sotto la spinta di un infuriato Pinochet, la Federtennis cilena fa ricorso a Losanna chiedendo la ripetizione della partita: quelle casacche rosse non erano regolamentari. Ma invano. La squadra azzurra atterra a Fiumicino con la coppa in mano, accolta dagli insulti di un gruppo di contestatori, e trattata con freddezza dai media.
Oggi lo sfondo è completamente diverso e Sinner e company vengono celebrati alla stregua di eroi. Meglio così.