CENT’ANNI DI INQUIETUDINE

DI ANTONELLO TOMANELLI

ANTONELLO TOMANELLI

Se ci fossero i tribunali di Dio, oggi nessuno vorrebbe indossare i panni di Henry Kissinger, perché la sua indiscussa intraprendenza non potrebbe evitargli un verdetto di colpevolezza durissimo. In vita è riuscito ad ottenere persino il Nobel per la Pace. Un premio che a volte guarda più ai risultati che non ai mezzi per conseguirla. E su un machiavellico come lui, quel cerchio con centro a Stoccolma si chiude alla perfezione.

Genio della realpolitik, primo demone della diplomazia USA, ha condizionato, se non determinato, almeno quindici anni di amministrazioni. Stimato professore di Harvard, nel 1967 viene chiamato alla corte di Richard Nixon, che nota le grosse potenzialità di quell’ebreo tedesco scampato da ragazzino per miracolo alle persecuzioni naziste. Vinte le elezioni, lo nomina segretario di Stato, carica che ne fa un presidente ombra.

Intanto in Vietnam si incomincia a fare sul serio. Intimorito dalle proteste interne, Nixon ricorre alla guerra segreta, affidandosi proprio a Kissinger. Ormai è lui a dare gli ordini ai generali del Pentagono. Laos e Cambogia aiutano troppo il Vietnam del Nord. «Andate e bombardate qualsiasi cosa si muova», sussurra ai vertici militari. Risultato: più bombe di quante ne siano state sganciate in Germania, Italia e Giappone durante la seconda guerra mondiale. Centinaia di migliaia le vittime tra i civili, in barba alle Convenzioni di Ginevra.

Ma è una strategia che non paga. L’opposizione interna aumenta e sono troppi i soldati americani a lasciarci le penne. Nixon vuole uscire senza disonore da quelle fangose risaie, che ormai rappresentano un salasso economico, oltre che umano.

Ci pensa lui. Abilissimo affabulatore, nel 1971 riesce a farsi ricevere a Pechino insieme alla moglie, una stangona di 1,83 accolta da un sornione Mao Tze-tung che ironizza sulla sua altezza rispetto al marito. Spiana la strada alla storica visita di Nixon, che avverrà l’anno seguente, e che porterà agli accordi di Parigi del 1973, con il totale disimpegno militare USA in Vietnam.

Per questo nello stesso anno Kissinger vince il Nobel per la Pace, assieme alla sua tostissima controparte vietnamita Le Duc Tho, quello che l’aveva inchiodato in estenuanti trattative, e che per ammirabile coerenza rifiuterà l’ambitissimo premio. Scandalizzati dalla scelta di Kissinger come apologeta della pace, tre giurati si dimetteranno dalla commissione.

Nel frattempo, per ingraziarsi Mosca, gli manda enormi quantità di cereali, facendo felici milioni di poveri russi, ma ancor di più i contadini del Midwest. Nasce la politica kissingeriana, quella della distensione verso le superpotenze, ma che è anche la politica della disinfestazione dei cortili di casa.

Il cortile di casa che preoccupa di più è il Sudamerica, un’autentica fucina di comunisti, che Kissinger vede come il fumo negli occhi. Garantisce appoggio materiale e politico a sanguinarie dittature militari. E quando Salvador Allende nel 1970 vince le elezioni, arriva a dichiarare: «Il Cile non può diventare marxista per colpa di un popolo irresponsabile. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni decidano da soli. Non permetteremo che quel paese finisca nel canale di scolo».

Un simile monito, proveniente da un individuo del genere, non può non destare preoccupazione persino in un indomito come Allende, che però farà di tutto per opporsi alla tracotanza di Kissinger. Asserragliato nel palazzo della Moneda, morirà la mattina dell’11 settembre 1973 imbracciando il mitra regalatogli da Fidel Castro, sotto le bombe del generale Pinochet, il traditore per antonomasia, l’uomo che aveva con fiducia nominato a capo dell’esercito soltanto venti giorni prima.

Ormai il narcisismo di Kissinger oltrepassa gli orizzonti conosciuti. Aiuta l’Indonesia a sbarazzarsi di oltre 200 mila abitanti dell’ex colonia portoghese di Timor Est in odore di comunismo. A Washington, durante una visita ufficiale, minaccia Aldo Moro per la sua politica di apertura al PCI e al mondo arabo, procurandogli un malore che dietro consiglio medico lo costringe a rientrare anzitempo in Italia.

A chi gli rinfaccia di non poter diventare presidente per non essere nato in territorio USA, gli risponde: «Non escludo di diventare Imperatore del mondo». In una storica intervista resa a Oriana Fallaci, si definisce «un cowboy che entra in città guidando da solo la sua carovana». Ma nessuno osa dargli dello scocomerato.

Finirà la sua carriera ufficiale dopo aver servito il presidente pro tempore Gerald Ford, insediatosi dopo le dimissioni di Nixon, travolto dallo scandalo Watergate. Aprirà il Kissinger and Associates, uno studio di consulenza in geopolitica e affari esteri nella Park Avenue di Manhattan, dove in attesa di parcelle da capogiro faranno la fila ministri e capi di Stato di ogni angolo del mondo, e dove si affacceranno tutti i futuri presidenti USA, Trump compreso.

Tutto sommato, un individuo da Corte Penale Internazionale. Ma che se n’è andato non prima di gettare nello sconcerto le alte sfere di Washington: «Putin non è la replica di Hitler e non intende lanciare una politica di conquista. Il suo obiettivo è ripristinare la dignità del suo Paese».