DI ANTONELLO TOMANELLI
Israele, ma anche Hamas, da oggi in teoria dovrebbero sospendere qualsiasi attività militare nella Striscia. Il mancato uso del potere di veto al Consiglio di Sicurezza ONU da parte del rappresentante USA, oltre a registrare un evento storico, attribuisce piena efficacia al «cessate il fuoco» a Gaza.
Cosa, tuttavia, non così scontata. Non tanto per il riferimento ad un cessate il fuoco «duraturo» anziché «permanente», come voluto dagli USA, che già di per sé non può infondere ottimismo, se non a breve termine e nel rispetto del Ramadan.
Più che altro lo lasciano supporre le dichiarazioni di alte sfere come il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz e quello della Difesa Yoav Gallant. «Israele non cesserà il fuoco. Distruggeremo Hamas e continueremo a combattere finché l’ultimo degli ostaggi non sarà tornato a casa», tuona il primo. «Non abbiamo il diritto morale di fermare la guerra a Gaza fino al ritorno di tutti i nostri ostaggi a casa», sottolinea il secondo.
Ma anche Hamas fa capire che quella risoluzione nasce con ben poche speranze di essere rispettata. Pur accogliendola con favore, manifesta «la necessità di raggiungere un cessate il fuoco permanente che porti al ritiro di tutte le forze sioniste e al ritorno degli sfollati nella Striscia di Gaza». Uno sfondo completamente diverso da quello tracciato nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU.
E qui sorgono due problemi. Il primo. Il «cessate il fuoco» prevede la liberazione incondizionata di tutti i civili israeliani nelle mani di Hamas. Ciò significa che se gli ostaggi non verranno liberati, Israele non sarà obbligato a cessare le ostilità. E non più di due settimane fa Hamas ha candidamente ammesso di non sapere esattamente che fine abbiano fatto gli ostaggi, da quasi sei mesi nelle mani di disparati gruppi jihadisti ormai privi di un coordinamento.
Il diktat imposto dal Consiglio di Sicurezza sul rilascio degli ostaggi rischia di porre Hamas nella condizione di non poter adempiere a quanto richiesto, fornendo così all’esercito israeliano la giustificazione per non attenersi al «cessate il fuoco».
Il secondo problema. Anche se per ipotesi ogni ostaggio facesse ritorno a casa, rimane la questione del ritiro dell’esercito israeliano da Gaza. Soluzione non affrontata dal Consiglio di Sicurezza, ma considerata imprescindibile da Hamas e inaccettabile per Tel Aviv.
L’unico lato positivo di questa risoluzione è aver rinviato il bagno di sangue che attende Rafah, città al confine con l’Egitto grande quanto Cremona, con migliaia di miliziani di Hamas che si confondono con oltre un milione di rifugiati palestinesi ormai allo stremo e con l’IDF alle porte della città. Un obiettivo che il governo Netanyahu sembra non avere alcuna intenzione di sorvolare.
Ma si tratta di un semplice rinvio. Una volta appurato che Hamas non è in grado di restituire gli ostaggi, o che l’IDF non ha alcuna intenzione di ritirarsi dalla Striscia, a Rafah si scatenerà l’inferno.