Una patata bollente per Biden

DI ANTONELLO TOMANELLI

ANTONELLO TOMANELLI

Già in primavera giravano voci di un interessamento del presidente USA alla proposta del governo australiano di riportare a casa Julian Assange, il giornalista più controverso dai tempi del Watergate. L’interessamento era nato poco prima, quando l’Alta Corte di Londra, dove Assange era detenuto, accogliendo l’ultimo disperato ricorso dei suoi legali, aveva chiesto formalmente agli USA di fornire in forma ufficiale precise garanzie che il processo sarebbe stato condotto alla luce del Primo Emendamento, che tutela la libertà di espressione e di stampa. Gli USA non avevano neanche risposto.

Così, oggi Assange si trova a Saipan, un’isola sperduta nell’oceano pacifico a sovranità USA, dove un giudice federale convaliderà il patteggiamento tra il giornalista australiano e il Dipartimento di Stato: Assange si dichiara colpevole di uno solo dei 18 capi di imputazione, quello della cospirazione finalizzata a ottenere informazioni sulla difesa nazionale, e accetta una pena pari a quella finora scontata tra carceri varie, inclusi quei sette anni trascorsi segregato a Londra all’interno dell’ambasciata dell’Equador, che gli aveva concesso asilo politico. In cambio, la liberazione immediata. Oggi Assange non è più ricercato dalla giustizia USA.

La notizia ha destato clamore, perché in effetti un epilogo del genere non se lo aspettava nessuno, considerando che erano ormai 15 anni che gli USA gli davano la caccia. Ma bisognerebbe chiedersi dove sarebbe stato l’interesse di Joe Biden, già in campagna elettorale, a tenersi uno come Assange, con tutte le picconate che il processo avrebbe inevitabilmente inferto al Primo Emendamento, intoccabile per tutti gli americani, più di quanto non lo sia la libertà di acquistare armi.

In più, il giudice americano avrebbe dovuto spiegare una cosa fondamentale in caso di condanna, che veniva ipotizzata fino a 175 anni.

Assange tramite WikiLeaks ha reso pubblici documenti top secret sui crimini di guerra commessi dall’esercito USA in Irak e Afghanistan. I capi di imputazione affibiatigli riguardavano la violazione dell’Espionage Act, una legge del 1917 varata subito dopo l’ingresso degli USA nella prima guerra mondiale, per soffocare sul nascere le pubblicazioni e i discorsi di coloro che dall’establishment erano considerati la quinta colonna del nemico.

L’Espionage Act vuole colpire anche chi fornisce segreti militari al nemico, o a chi potrebbe comunque utilizzarli per attentare alla sicurezza nazionale. Questo è il caso di Bradley Edward Manning, poi diventato Chelsea per intervenuto cambio di sesso, analista militare di intelligence durante l’ultima guerra in Irak, che inviò proprio a WikiLeaks migliaia di documenti riservati, tra i quali il famigerato video del 2007 girato su un elicottero Apache, da dove partirono, tra l’ilarità generale, diverse raffiche che uccisero 18 civili irakeni, compresi due giornalisti della Reuters. Nel 2013 Chelsea fu condannata a 35 anni di reclusione proprio sulla base dell’Espionage Act, ma fu graziata da Obama in uno dei suoi ultimi atti presidenziali.

In sintesi, l’Espionage Act vuole colpire il cosiddetto nemico interno, il tipico fellone depositario di segreti. Non a caso la Section 8 limita l’applicazione di quella legge ai territori sottoposti alla giurisdizione USA, compresi quelli oltremare e compresi anche navi e aeromobili, ovunque si trovino. Cosa mai potrebbe avere a che fare Assange, giornalista australiano che nemmeno ha mai lavorato per un giornale americano, con gli obiettivi dell’Espionage Act, sarebbe davvero difficile da spiegare. E sarebbe comunque una posizione che la Corte Suprema USA non farebbe passare mai.

Antonello Tomanelli